jueves, 18 de octubre de 2007

Lavoro nella globalizzazione


Carlos Cáceres Valdebenito


Negli ultimi venti-trent'anni i cambiamenti avvenuti nella società, nell'economia, nel modo di produrre e di comunicare, nella sicurezza sociale come nella rappresentanza, sono così radicali che tutto appare diverso e cambiato, al punto che la portata di questi cambiamenti sono paragonabili agli avvenimenti che alla fine del XIX secolo, portarono alla nascita delle prime forme di assicurazione sociale e alla costituzione dello stesso sindacato. Gli effetti della globalizzazione sul lavoro e sui sistemi di relazioni industriali sono alla luce del sole.

Le privatizzazioni, le massicce deregulation, l’abbattimento delle barriere doganali, la disoccupazione di massa in Europa, l’affermarsi, soprattutto negli Usa, più che di una economia di mercato, di una società di mercato, con una forte polarizzazione sociale, ecc., tutto ciò sta provocando una crescita delle diseguaglianze economiche, polarizzazione, esclusione e crisi dei processi d'integrazione sociale.

E dunque se la globalizzazione scompone e talvolta distrugge il vecchio ordine keynesiano-fordista, quali effetti ha sulla coesione sociale? Qual è la visione che il movimento sindacale ha della globalizzazione? Quali sono gli strumenti che esso propone per controllarne e governarne le potenzialità? Quali sono le politiche e gli interventi che propone per mitigarne gli effetti più dannosi? Come può trasformarsi il conflitto e la stessa rappresentanza nell’era della globalizzazione?

La globalizzazione non è soltanto la trasformazione delle relazioni economiche, della organizzazione produttiva o dell’economia ma è anche, e forse soprattutto, la trasformazione delle relazioni sociali, culturali, familiari e, come avrebbe detto Polany «una grande trasformazione» della stessa soggettività umana.

Tutte le società dei paesi industrializzati, vivono un periodo di durature e strutturali trasformazioni sociali. All’origine di questa trasformazione si trova il cambiamento da un ordine sociale in cui la relazione salariale era politicamente regolata, ad un altro ordine, in cui la relazione salariale, politicamente non regolata è affidata al «vento» del mercato.

Nel precedente ordine sociale, il salario era regolato dal solo mercato e non c’erano forme di correzioni agli eccessi prodotti dall’ordine sociale. Fu in tale contesto che ebbe origine, alla fine del XIX secolo e inizi del XX, la cosiddetta questione sociale.

Seguì una fase keynesiano-fordista dove il salario fu regolato da un forte intervento politico statale. Questa fase si caratterizzò per il notevole impatto che ebbe l’intervento pubblico sull’economia; per l’utilizzo della domanda nazionale (deficit pubblico, opere pubbliche, tassi d’interesse, scambi internazionali). Ma soprattutto si caratterizzò perché l’obiettivo centrale fu quello di creare pieno impiego.

Fu nella creazione di questa struttura sociale che si crearono e si consolidarono il diritto del lavoro e la sicurezza sociale.

Si trattava di un sistema economico-sociale che vedeva i governi nazionali impegnati nell’utilizzo di una spesa sociale che quasi ovunque si aggirò intorno al 25% del Pil. Ma, soprattutto, questo sistema presupponeva, e presuppone, l’esistenza di una classe lavoratrice organizzata e riconosciuta attraverso le sue organizzazioni di rappresentanza.

Il movimento sindacale vede allarmato il carattere esclusivamente neoliberistico di una globalizzazione che, così facendo accentua le asimmetrie tra nord e sud del mondo, tra poveri e ricchi, tra chi ha e governa le tecnologie e chi non le ha o non le conosce, ciò che non va è la sua attuale natura neoliberistica, foriera di esclusione e di diseguaglianze sociali.

È questo proditorio dualismo, è questa polarizzazione che crea rischi per la democrazia (laddove questa è debole) e per la coesione sociale (anche laddove questa è consolidata).

Per noi la globalizzazione neoliberistica non è l’unica possibile. E dunque la alternativa vera non è la lotta “alla” globalizzazione ma bensì il suo governo, il suo effettivo controllo. Ma per governare la globalizzazione occorrono insieme più politica, più partecipazione, più società, occorre, in sostanza, più democrazia, ma occorrono anche nuove istituzioni internazionali.

La globalizzazione pone al movimento sindacale la necessità di ripensare se stesso a cominciare dagli strumenti e dalle forme dell’azione sindacale; se la rivoluzione tecnologica ha posto l’esigenza di rappresentare le nuove professionalità, -le alte professionalità- la globalizzazione richiede persino di ripensare le stesse forme della rappresentanza.

C'è sempre più consapevolezza che il sistema giuridico fondato sull'impero della "legge", caratteristica questa che ha dominato le democrazie liberali non è più all'altezza delle nuove esigenze, perché limitato dalle varie sovranità nazionali. Ora occorre una legislazione sovranazionale, cioè globale, anche per imporre il rispetto di standard sociali ed ambientali, oltreché per il controllo e il governo tout court dell'odierna globalizzazione.

Che l’esigenza di autoriforma del sindacato sia qualitativa, lo dimostra il fatto che la globalizzazione richiede che i sindacati di aree geografiche diverse siano posti davanti a problemi comuni dove emerge la necessità di rappresentare il lavoro in modo diverso, prima di tutto superando le stesse barriere nazionali nell’agire sindacale.

Tra i settori sociali più coinvolti nel cambiamento c’è dunque il mondo del lavoro e le sue organizzazioni rappresentative.

In particolare, per il movimento sindacale internazionale, le politiche economiche, finanziarie e commerciali dell’economia globale sono considerate pericolose e persino nocive perché carenti di chiare forme regolative e perché ignorano la dimensione sociale.

Ritenendo che gli Stati nazionali e le stesse istituzioni finanziarie internazionali, finora non siano state in grado di governare la globalizzazione, il sindacato propone come lo strumento principe la partecipazione concertativa.

E in questo senso. E suo tempo feci la proposta la proposta di vedere nell’Oil la vera «sede della concertazione mondiale», come unico modo di espandere e creare consenso in favore della clausola sociale e dei concetti espressi nelle core conventions. (anche se mi rendo conto che si tratta di una proposta "troppo" cislina!)

Non si tratta, certamente, di riprodurre sic et simpliciter il modello di relazioni sindacali e industriali che, in particolare in Italia, è stato attuato, anche perché il livello d'istituzionalizzazione, la prassi contrattale, la struttura e la cultura organizzativa e del conflitto è assai differenziata anche all'interno della stessa Europa.

Trovare forme di convergenze e costruire strategie diventa dunque, nel sindacalismo internazionale un compito primario, ma, temo, che ciò sarà possibile solo dopo una radicale riforma e ristrutturazione di queste organizzazioni.

Ovviamente gli effetti della globalizzazione sono diversi nei paesi poveri e nei paesi di antica industrializzazione. Nei primi, sostiene la Orit-Icftu «il decennio degli anni ottanta e degli anni novanta dimostrano come i paesi poveri non siano riusciti né a modificare la propria forma di inserimento nell’economia mondiale, né a far parte di un nuovo ciclo storico e di crescita economica sostenuta che, in termini di inclusione sociale, possa estendersi gradualmente verso coloro che sono rimasti fuori dal modello di sviluppo.

Al contrario, ciò che si è raggiunto è una relativa crescita economica con più disoccupazione, precarizzazione del lavoro e diseguaglianze sociali, fattori che tutti insieme concorrono alla limitazione dei diritti economici, sociali e politici dei cittadini. Tutto ciò risulta dalla maggiore competizione intercapitalista e della politica neoliberista e dalle enormi deregolazioni del capitalismo in questo fine secolo».(1)

Nei paesi poveri, laddove la negoziazione e l'azione collettiva è debole, -perché debole è non soltanto il sistema produttivo ma anche le controparti sociali-, il movimento sindacale ha avuto nello Stato la principale controparte, e lì la globalizzazione ha significato una riduzione della presenza dello Stato e delle politiche pubbliche, limitando con ciò ulteriormente la tutela e la difesa dei diritti collettivi.

Le forme dell'azione sindacale, il conflitto, le stesse forme della rappresentanza sono state stravolte dai vorticosi processi della deregulation, dalla quantità e qualità delle privatizzazioni e quindi dall'imposizione di esclusive logiche di mercato, di flessibilizzazione non negoziata, in definitiva dall'assenza di politiche concertative.

I lavoratori finora hanno dovuto affrontare «la caduta dei salari reali, la riduzione dei benefici sociali e le minacce di chiusura per delocalizzazione». Gli interessi delle imprese multinazionali «stanno usando la globalizzazione per livellare verso il basso» i diritti e le conquiste del mondo del lavoro creando inoltre una forte competizione tra gli stessi lavoratori.(2)

Le esigenze di regolazione, di «governo della globalizzazione» prevalgono nella maggioranza del sindacalismo di queste aree. Vi sono tuttavia ampi settori ostili alla stessa logica della globalizzazione. Tale ostilità deriva fondamentalmente dalle conseguenze che, nel breve periodo, derivano dalle politiche di libero commercio che finora ha avuto una logica asimmetrica. Molti sindacati del Terzo mondo, e non solo, vedono, nella richiesta di rispetto degli standard sociali e ambientali avanzata dai sindacati dei paesi industrializzati, una forma di protezionismo.

Le conseguenze che la globalizzazione sta imponendo sui mercati del lavoro nei paesi industrializzati ad alti salari sono indiscutibili. Qui la situazione è diversa, poiché la pressione per ridurre la presenza dell'azione sindacale si manifesta nelle richieste di flessibilizzazione, nella riforma e riduzione dello stato sociale, nell'adeguamento dei salari alle logiche competitive, nella riduzione delle tutele.

Tuttavia vi è quasi unanimità nel sindacalismo europeo nel considerare la globalizzazione «come un processo che offre grandi opportunità, soprattutto per i più poveri, ma queste opportunità non diverranno condizioni di equità e di benessere generalizzato senza l’intervento del sindacato».

Il sindacalismo europeo, in particolare quello italiano, non ha avuto dubbi in questi anni, nel considerare la globalizzazione come un fenomeno positivo. Ma questo giudizio lo ha condizionato al superamento dell’esclusione «che colpisce due terzi dell’umanità» e al superamento della cultura del «pensiero unico» liberista incentrata nella prevalenza etica del mercato.

Tuttavia la globalizzazione è ancora oggi un fenomeno politicamente e socialmente anarchico.

Nei paesi industrializzati, secondo Rodrick, il global market ha creato un triplice effetto negativo.

  1. vi è un forte incremento dell’instabilità del lavoro e una crescita delle diseguaglianze salariali;
  2. vi è una consistente riduzione della spesa sociale e dei consumi pubblici creando un effetto depressivo ancor più consistente in quei paesi con scarsa mobilità di capitali;
  3. vi è una crescita delle tensioni che tendono a degradare e deprezzare le norme di tutela sociale a livello nazionale, con l’obiettivo di affrontare gli effetti del dumping sociale che la globalizzazione porta con sé.(3)

E dunque per queste società che negli ultimi cinquanta anni hanno costruito la propria legittimità sociale su un ordine fondato sulla stabilità del posto di lavoro, sulla riduzione delle disuguaglianze e sulla sicurezza e protezione sociale, non c’è dubbio che quelle politiche, che vanno in senso opposto, creano le fondamenta per la crisi della coesione sociale.

In questo senso la globalizzazione, se non regolata e lasciata a briglia sciolta, per alcuni settori del mondo del lavoro, può avere un carattere di vera e propria disintegrazione sociale.

Più concretamente la globalizzazione, soprattutto attraverso la competizione internazionale, tende a ridurre la capacità sindacale di difesa dei livelli salariali, particolarmente per quelli più elevati; a ciò si aggiunga che, con la delocalizzazione, le imprese tendono alla ricerca di luoghi di investimento dove minore è la difesa sindacale e contrattuale. Vi è poi un ulteriore minaccia alla forza del sindacato come sostengono Lange e Scruggs, la globalizzazione può «spingere i governi a cambiare le loro politiche competitive in modo che (intenzionalmente o inintenzionalmente) indeboliscono la forza contrattuale del sindacato e il diritto di voce sui luoghi di lavoro». (4)

E infine va ricordato che l’internazionalizzazione estende questo fenomeno alla stessa gestione delle risorse umane e ciò colpisce severamente il sindacato che agisce prevalentemente a livello nazionale.

Questi aspetti possono incidere in un calo della sindacalizzazione e quindi della tutela dei più deboli.

Ovviamente si tratta di questioni controverse poiché l’espansione economica e commerciale, la specializzazione produttiva potrebbero beneficiare il sindacato e i livelli di sindacalizzazione. E non mancano coloro che affermano che la crescita del sindacato è legata alla domanda di tutela e siccome con la globalizzazione tale domanda tende a crescere, ergo sono i sindacati a beneficiare della globalizzazione.(5)

Il movimento sindacale europeo generalmente si è manifestato in favore di politiche non protezionistiche, anche se non mancano le tentazioni ad usare la clausola sociale in termini protezionistici. Certamente diverso è il caso di quello americano.

Il dato qualitativo inoltre è contrassegnato dal fatto che l’azione sindacale che si orientava prevalentemente sull’impegno negoziale e contrattuale, oggi richiede un impegno più forte nell’area politica e sociale; è la stessa globalizzazione a porre al movimento sindacale l’esigenza di accrescere il proprio impegno politico e sociale, anche a livello internazionale.

La globalizzazione è vista dal sindacato europeo, come abbiamo visto, con criteri prevalentemente non ideologici valutando positivamente tutte le potenzialità sia sul piano della crescita che su quello dello sviluppo commerciale. Ma perché la globalizzazione non sia uno strumento di attacco alla coesione sociale il movimento sindacale dovrebbe impegnarsi nella creazione di politiche tese alla creazione di regole che contrastino ogni forma di deregolamentazione selvaggia.

L’azione sindacale, a cominciare dalla contrattazione, dovrà adeguarsi alle esigenze della globalizzazione che richiede forme più ampie e più articolate di negoziazione collettiva dove il livello nazionale e categoriale dovrà necessariamente combinarsi con quella regionale e multinazionale, a partire dalle aree integrate.

Un primo intervento il movimento sindacale lo ha identificato nell’estensione della contrattazione collettiva. È opportuno elevare i livelli contrattuali fino a superare le frontiere nazionali per arrivare a vere proprie forme di negoziazione internazionale e mondiale.

Nell'ambito di una strategia che punti a realizzare una vera e propria forma di governo della globalizzazione lo strumento principe è quello della concertazione a livello internazionale ma ad essa occorre affiancare una serie di proposte, per una riforma delle organizzazioni internazionali che consenta la partecipazione delle parti sociali agli stessi processi decisionali.

In sostanza occorre un impegno serio per dare avvio a politiche che creino sinergie tra le istituzioni internazionali, i governi e le parti sociali.

Non mancano proposte più puntuali quali ad esempio la clausola sociale, la Tobin tax, l’abbattimento del debito estero dei paesi del terzo mondo; politiche ambientali ecosostenibili, il rapporto tra Organizzazione internazionale del lavoro e Organizzazione mondiale del commercio (laddove la seconda ha escluso la prima dai suoi vertici per non venire incontro alle richieste relative agli standard sociali), ed anche proposte eco-ambientali, ecc.

Tuttavia non ci sfugge la difficoltà di concepire forme d'intervento sulla globalizzazione partendo dalla dimensione istituzionale, poiché è la stessa natura odierna, anarchica e incontrollata della globalizzazione a impedire lo sviluppo di qualsivoglia strategia che parta dall'alto

Appare invece discutibile la visione che il movimento sindacale ha sul libero scambio, e cioè adesione di principio al libero commercio e equidistanza tra le visioni protezionistiche, che qua e là serpeggiano al suo interno e quelle maggioritariamente aperturistiche.(6) E tuttavia non è mistero che la liberalizzazione commerciale, così come finora si è realizzata, ha dato risultai contraddittori e, in molti casi, persino, negativi.

Per quanto riguarda il mercato del lavoro, il movimento sindacale è impegnato nel distinguere le diverse concessioni che vengono proposte sulla flessibilità, fermo restando che questa rimane una materia negoziale.

La visione che concepisce la flessibilità fondata prevalentemente sugli effetti che essa crea sul costo del lavoro è vista come è ovvio assai negativamente. Ma quella basata sull’innovazione e che si affida ad una concorrenza fondata sulla qualità interessa certamente molto di più.

Quest’ultima richiede un forte impegno sui temi formativi, sulla formazione professionale e sulla formazione permanente poiché è questo il principale valore aggiunto che i prodotti italiani ed europei porteranno con sé nella concorrenza globale.

Infine per quanto riguarda l’internazionalizzazione del capitale finanziario non ci sembra che ci sia un profuso impegno sindacale in favore della trasparenza e di una regolamentazione seria e compiuta che impedisca la continuazione del grande Casinò della speculazione valutaria e dei movimenti liberi di capitali.

D’altra parte gli eccessi e la polarizzazione tra paesi ricchi e paesi poveri, ma anche all’interno dei singoli paesi, che l’assenza di regolamentazione sta producendo pone al sindacato, non solo, ovviamente, quello europeo, il gravoso compito di agevolare gli investimenti produttivi di lungo periodo che possano creare le condizioni, se non per il pieno impiego, per il superamento in termini dinamici della disoccupazione strutturale.(7)

In Europa, in particolare, occorre un maggiore impegno in favore dell’armonizzazione fiscale. Quella del fisco deve essere la nuova frontiera della concertazione sindacale europea. In questo senso non basta una politica tesa ad una adeguata tassazione della ricchezza e, soprattutto, dei redditi di capitali, ma occorre una politica che impedisca la fuga dalla tassabilità delle imprese multinazionali ed anche un adeguato trattamento fiscale del commercio on line.

Note

  1. Orit-Ciosl, Governar la globalización, Santo Domingo, 1998
  2. Orit-Ciosl, op. cit.
  3. D. Rodrik, Has globalization gone too far?, Whashington 1997
  4. Peter Lange e Lyle Scruggs La sindacalizzazione nell'era della globalizzazione in «Stato e Mercato» n.55,1999
  5. Geoffrey Garrett Partisan Politics in The Global Economy, New York 1998.
  6. Si veda il documento della Cisl Internazionale «Affrontare la sfida della globalizzazione: proposte da presentare alle riunioni annuali dei consigli dei governatori del Fondo monetario Internazionale e della banca Mondiale», Hong Kong, 23-25 settembre 1997.
  7. Sulla flessibiltà, sul decentramento contrattuale e soprattutto sul tema relativo alle politiche di convergenza si veda il saggio di Marino Regini L'Europa fra de-regolazione e patti sociali, in «Stato e Mercato» n.55 1999.


Il mondo d'oggi

Nessuno può più ignorare, in tempi di Internet e di Villaggio globale il come è del mondo d'oggi:

Su sei miliardi di persone 2,8 miliardi, quasi la metà della popolazione mondiale vive con meno di due dollari al giorno, e 1,2 miliardi un quinto della popolazione mondiale vive con meno di un dollaro al giorno;

Ci sono 10 milioni profughi

Nell’ultima decade ben 300 mila bambini hanno fatto i soldati e 6 milioni sono stati feriti nei diversi conflitti armati;

La Mercedes paga le tasse negli Stati Uniti e non più in Germania. La Bmw e la Siemens, colonne portanti del capitalismo tedesco, hanno ridotto quasi a zero la quota di contribuzione fiscale. Che succede in Italia?

I 48 paesi più poveri del mondo realizzano appena lo 0,4 per cento delle esportazioni mondiali

Le speranza di vita media in Africa è di appena 52 anni

Chi inquina il mondo: i paesi industrializzati producono 11,4 mila tonnellate di CO2 contro 2 dei paesi in via di sviluppo

E il mondo del lavoro?

La situazione certo non è esaltante: circa 160 milioni di persone sono alla ricerca di un lavoro. Oltre 70 milioni di giovani in età compresa tra i 15 e i 24 anni cercano lavoro e non lo trovano.

Circa un miliardo di lavoratori, un terzo della manodopera mondiale è senza lavoro, oppure ha un lavoro precario

Ci sono 250 milioni di bambini che lavorano, e milioni che soffrono maltrattamenti fisici e psicologici. Ci sono 100 milioni di bambini che lavorano per le strade

Ci sono 27 milioni di schiavi!!!

Di fronte ad una realtà così drammatica, ci sembra che l'Europa abbia l'obbligo etico di guardare oltre le frontiere anguste del proprio particolare, soprattutto quando esprime solo egoismi ed esigenze nazionali.

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