jueves, 18 de octubre de 2007

TENDENZE EVOLUTIVE E PROBLEMI ATTUALI DEI SISTEMI EDUCATIVI DI MASSA

- Il caso italiano in prospettiva storico-comparativa

di Carlos Cáceres Valdebenito

Premessa


I recenti provvedimenti di riforma dei cicli scolastici prevedono che l'obbligo formativo (da non confondere con l'obbligo scolastico) venga portato anche nel nostro paese a 18 anni. Si tratta di un obiettivo che altri paesi hanno già di fatto realizzato da vari anni se non da alcuni decenni. Anche se negli ultimi dieci anni l'Italia ha fatto passi importanti verso questo obiettivo, la meta è ancora piuttosto lontana. E' indubbio tuttavia che non potremo sottrarci al compito di perseguire questo obiettivo, se vorremo raggiungere e mantenere una posizione dignitosa nel confronto con i paesi leader in Europa e nel mondo. E' ormai chiaro a tutti, salvo a coloro che vivono nel rimpianto dei tempi passati, che nel mondo globalizzato di oggi e domani la risorsa decisiva è, e sarà sempre più, la qualità e la quantità di conoscenza diffusa di cui ogni collettività sarà in grado di disporre. La posta in gioco, nella fase attuale, è la collocazione nel sistema mondiale: le società che non riusciranno ad accumulare e distribuire ai propri membri cospicue dosi di "conoscenza" saranno destinate a scivolare in posizioni sempre più marginali e periferiche e a subire il potere di quelle società che, invece, riusciranno ad occupare, mantenere e rafforzare la loro posizione centrale. Questo spiega che cosa spinge oggi le società avanzate ad accumulare e distribuire conoscenza. Quello nel quale viviamo, tuttavia, è lo stadio finale di un processo che ha radici lontane. Sarebbe sbagliato pensare che anche in passato siano state le esigenze della competizione economica internazionale a stimolare lo sviluppo della scolarità. I fattori economici giocano oggi, e hanno giocato certamente anche in passato, un ruolo importante nel favorire/ostacolare lo sviluppo dell'istruzione. Tuttavia, soprattutto in passato, ma anche attualmente, giocano un ruolo importante anche fattori di ordine religioso, politico e sociale. Cercherò di ricostruire schematicamente il gioco dei vari fattori in almeno alcune tappe cruciale di questo processo.

1. Verso l'istruzione delle masse: le spinte di origine religiosa

Si può tranquillamente affermare che dall'invenzione della scrittura fino alle soglie dell'età moderna, l'accesso alla cultura e alla conoscenza era ristretto ad un sottile strato d'élite, costituito esclusivamente da sacerdoti, letterati, professionisti ed esperti di cosa pubblica, dediti cioè all'amministrazione dello stato. La grande massa della popolazione delle società dove l'attività produttiva di gran lunga prevalente era l'agricoltura, vale a dire i contadini, non ricevevano nessuna istruzione in qualche modo formalizzata; il sapere che serviva alle loro attività lo apprendevano direttamente imitando i modelli adulti con i quali erano in contatto nella sfera domestica. Si trattava di un sapere tutt'altro che banale, fatto di un miscuglio di conoscenze empiriche, di credenze e anche di superstizioni, che tuttavia serviva per poter affrontare i compiti quotidiani e dare un significato all'esistenza.

Anche gli uomini d'arme, che frequentemente costituivano una parte non trascurabile della popolazione, venivano per lo più "addestrati sul campo" e la stessa acquisizione dei mestieri che richiedevano abilità complesse (come la gran parte dei mestieri artigiani) avveniva nelle botteghe in un rapporto diretto tra chi disponeva di un saper fare specialistico (oggi diremmo, un know how) e chi questo sapere voleva apprenderlo. All'alfabetismo (literacy) arrivava una minoranza esigua e di questa minoranza una parte preponderante era costituita dal clero al quale erano affidati svariati compiti nella sfera mondana, oltre l'intermediazione con la sfera ultraterrena e la cura delle anime. La Chiesa, affiancata dal XII secolo in poi dalle università, deteneva il monopolio della cultura scritta.

La prima grande spinta alla diffusione della cultura scritta al di fuori della cerchia ristretta del clero e degli esigui strati di burocrati, professionisti e mercanti è venuta dalla Riforma protestante. Già la religione ebraica, come prima "religione del libro", aveva fatto degli ebrei il primo popolo letterato della storia dell'umanità, ma trattandosi di un popolo paria, il loro esempio non si era esteso alle popolazioni all'interno delle quali si trovavano a vivere. La Riforma, invece, eliminando l'intermediazione della Chiesa nel rapporto con la parola divina, richiedeva che le comunità dei fedeli potessero accedere autonomamente e liberamente alla lettura e all'interpretazione della Bibbia. Questa è la ragione per cui nei paesi protestanti l'alfabetizzazione di massa si è sviluppata prima che altrove, dando a questi stessi paesi un vantaggio che si è mantenuto fino a tempi recenti e che, forse, non è stato indifferente nel favorire in quei paesi le condizioni per lo sviluppo capitalistico.

2. Verso l'istruzione delle masse: le ragioni politiche della cittadinanza

La seconda grande spinta è venuta dalla formazione degli stati-nazione e dal concomitante processo di democratizzazione dei regimi politici con la graduale estensione del suffragio. Se la coesione interna degli stati dinastici di ancien régime era assicurata dal mantenimento in condizioni di ignoranza di una massa di sudditi analfabeti, quando si incominciano a diffondere forme moderne di cittadinanza e quando l'acquisizione del consenso diventa un fattore decisivo nella lotta per il potere politico, diventa necessario che la massa degli elettori possa essere raggiunta da qualche forma di messaggio e ciò presuppone un certo grado di alfabetizzazione delle masse. La democratizzazione corre parallela al processo che è stato designato (Ortega y Gasset) come "nazionalizzazione delle masse". Sul versante interno, gli stati-nazione si trovano a dover far fronte alle prime lacerazioni dovute allo sviluppo capitalistico e ai nuovi conflitti da esso indotti, sul fronte esterno gli stati-nazione, in perenne conflitto tra di loro, devono costantemente mobilitare le energie della nazione (coscrizione obbligatoria) per aggredire o rispondere alle aggressioni degli stati vicini. Di fronte alle sfide interne ed esterne solo il ricorso alla costruzione ideologica della "nazione" è in grado di garantire il necessario sostegno allo stato. Una nuova "religione civile" fondata sull'idea di nazione in parte si sostituisce e in parte si affianca alla religione tradizionale, l'unità nazionale si afferma sovrapponendosi e cancellando tendenzialmente le differenze e le culture regionali. Si tratta di costruire dei "cittadini" che in tempo di pace lavorino alacremente per fare più forte e più ricca la nazione e che, in tempo di guerra, sappiano battersi fino al sacrificio della propria vita per la "patria".

Lo strumento principale della "nazionalizzazione delle masse" è l'istruzione primaria obbligatoria impartita nella scuola di stato. Il primo obiettivo della scuola di stato, non casualmente, è stata la diffusione della lingua nazionale e l'unificazione linguistica su vaste aree dove in precedenza prevalevano comunità linguistiche locali. La lingua, come mezzo per l'elaborazione e la diffusione della cultura nazionale, diventa il veicolo sul quale fondare il senso di identità collettiva, l'elemento simbolico attorno al quale costruire il sentimento di appartenenza nazionale.Non sorprende che quasi ovunque troviamo tra i più accesi sostenitori dei movimenti di stampo nazionalistico, i maestri elementari; sono loro gli artefici della coscienza nazionale.

Le grandi spinte all'alfabetizzazione hanno quindi avuto un'origine nella sfera della religione e della politica. Direi addirittura che l'istruzione primaria si è affermata più sul versante dei doveri che su quello dei diritti di cittadinanza; agli inizi si parla infatti di "obbligo scolastico" piuttosto che di "diritto all'istruzione" e il termine "scuola dell'obbligo" è rimasto in uso fino ai nostri giorni. Di fatto, fino a pochi anni fa, l'evasione dall'obbligo scolastico è stata, in Italia soprattutto nelle regioni meridionali, di dimensioni consistenti e non era infrequente che le forze dell'ordine prelevassero i bambini e le bambine dalle famiglie per accompagnarli a scuola e ancor oggi non si può dire che il fenomeno sia stato del tutto cancellato. Che l'istruzione si sia affermata come "obbligo di cittadinanza" non vuol dire negare che l'istruzione stessa sia stata fatta valere come "diritto" dalle forze sociali che si sono storicamente battute per l'emancipazione delle masse popolari. La storia del movimento operaio, così come dei movimenti femministi, testimoniano di un impegno consistente nella direzione della diffusione dell'istruzione. Impegno che si è esteso, una volta riconosciuto formalmente il diritto all'istruzione, alla sua realizzazione concreta, nei casi in cui questo diritto veniva poi nei fatti negato attraverso la precoce espulsione dalla scuola degli alunni provenienti da condizioni socio-culturali svantaggiate.

3. Verso l'istruzione delle masse: la domanda di istruzione e la mobilità sociale

Al di là delle resistenze opposte alla scolarizzazione da alcune frazioni di strati sociali particolarmente deprivati sul piano culturale, si è affermata, tra i ceti medi ma anche tra i ceti popolari, l'idea che la scuola potesse aprire la strada a percorsi di promozione e mobilità sociale, che la frequenza scolastica e il conseguimento di un titolo di studi fossero la via maestra per non riprodurre nella generazione dei figli le condizioni di subalternità della generazione dei padri. Tra gli studiosi resta aperto il problema se la scuola abbia funzionato più come canale di mobilità sociale, oppure di riproduzione delle disuguaglianze. Certamente, in nessun paese, l'istituzione scuola è stata in grado di produrre quelle condizioni di uguaglianza delle opportunità che l'ideologia meritocratica le assegnava come compito. Non c'è dubbio che frequentemente la scuola sanzioni, certifichi e confermi le disuguaglianze di partenza. Disponiamo di una mole considerevole di evidenza empirica che va in questa direzione. Se calcoliamo la probabilità che un figlio o una figlia di genitori laureati completino con successo il loro iter formativo fino all'istruzione superiore e se confrontiamo questo dato con la probabilità che il figlio o la figlia di genitori che hanno appena completato la scuola dell'obbligo arrivino allo stesso risultato, ci rendiamo conto che il modo migliore per assicurarsi il successo a scuola è esser nati in una famiglia con genitori istruiti. I meccanismi sociali che producono questo risultato operano spesso in modo nascosto: il semplice fatto che gli insegnanti migliori tendano ad insegnare nelle scuole migliori, che queste a loro volta tendano ad essere localizzate nei quartieri benestanti e che i genitori benestanti sappiano scegliere per i loro figli le scuole migliori, produce alla fine il risultato che la qualità dell'istruzione ricevuta dai figli dei ceti superiori è di gran lunga migliore di quella ricevuta dai figli dei ceti inferiori, anche quando, come in Italia, il sistema scolastico è quasi interamente pubblico e rilascia titoli di studio che hanno lo stesso valore legale.

E, tuttavia, in presenza di condizioni soggettive favorevoli (stimolo da parte dei genitori, doti intellettuali particolarmente vivaci e impegno nello studio), anche chi proviene da ceti sociali culturalmente svantaggiati, è in grado di conseguire risultati scolastici brillanti. In altri termini, la scuola funziona come una corsa ad handicap. Chi parte da lontano, se ha abbastanza energia e molto fiato, e anche una certa dose di fortuna, può arrivare al traguardo tra i primi. E' vero che normalmente la scuola funziona da canale di mobilità soltanto per pochi, ma basta un flusso anche sottile per rendere credibile a livello ideologico la sua funzione di promozione sociale. Se qualcuno riesce ad affermarsi nonostante l'handicap di partenza, vuol dire che anche altri potrebbero percorrere la stessa strada e, se non riescono ad arrivare al traguardo, vorrà dire che non si sono impegnati abbastanza e non che la strada è troppo stretta.

L'entità dei flussi di mobilità alimentati dal canale dell'istruzione variano molto da paese a paese e, per ogni paese, nelle diverse fasi storiche. E' importante distinguere analiticamente la mobilità indotta dalle trasformazioni nella stratificazione sociale dovute ai processi di sviluppo (i processi di industrializzazione prima e di terziarizzazione poi hanno prodotto effetti sulla struttura sociale e generato intensi flussi di mobilità sociale), dalla mobilità dovuta al variabile grado di permeabilità delle barriere di ceto, misurato dall'altezza degli ostacoli che un individuo deve superare per essere ammesso nel ceto verso il quale sono orientate le sue aspirazioni e nel quale è collocato il suo gruppo di riferimento. L'istruzione tende,a parità di altre circostanze, a ridurre l'altezza di tali ostacoli.

L'aspirazione alla mobilità alimenta la domanda di istruzione. L'aspirazione alla mobilità altro non è che la trasposizione sul piano delle motivazioni degli individui (o, meglio, delle famiglie) di uno dei valori fondamentali della cultura occidentale, vale a dire che ogni individuo deve essere valutato, apprezzato e ricompensato per le sue capacità indipendentemente dalla sua origine sociale, dalla tradizione della sua famiglia, dagli antenati che può vantare. L'ideologia meritocratica si associa con l'ideologia dell'uguaglianza delle opportunità, ovvero dei punti di partenza. Ogni discriminazione nell'accesso a qualche bene socialmente valutato, così come ogni differenza di trattamento che non sia in qualche modo riconducibile al merito, ancorché reale, alla luce di questa ideologia, rimane per così dire viziata da un elemento di illegittimità. E poiché l'istituzione che valorizza i talenti e certifica le capacità, rendendole socialmente spendibili, è la scuola, essa diventa - il linea di principio - l'unico canale legittimo di accesso alle varie posizioni sociali.

Che di fatto poi ciò non avvenga o avvenga solo in misura parziale, non toglie nulla al fatto che l'ideologia meritocratica orienti comunque le aspirazioni e i comportamenti e si traduca in domanda di istruzione proveniente da tutti gli strati sociali.

Per gli strati superiori, il cui problema nella successione delle generazioni eè il mantenimento della posizione acquisita, la domanda di istruzione mira a dimostrare che la posizione di privilegio di cui si gode è in qualche modo meritata, in quanto rispecchia capacità effettive, universalisticamente certificabili. Non i privilegi dell'origine sociale, ma le capacità acquisite attraverso i risultati dell'impegno e dello studio legittimano la posizione sociale che ci appresta ad ereditare.

Gli strati superiori sono posti di fronte ad un'oggettiva difficoltà di fronte ad un'ideologia che postula l'uguaglianza dei punti di partenza. Se la realtà rispecchiasse l'ideologia, gli strati superiori sarebbero posti nella condizione di dover affrontare il rischio che i propri discendenti, ricondotti sulla stessa linea di partenza, non riuscissero ad emergere nella competizione. Di fatto, anche se dispongono di strategie efficaci per assorbirlo, gli strati superiori devono fronteggiare questo rischio. Lo spettro della mobilità sociale discendente, la prospettiva di poter scendere nella scala sociale, alimenta l'incentivo al successo scolastico e all'investimento nella qualità dell'istruzione.

Le strategie dei ceti superiori per mantenere nel tempo la loro posizione variano molto da società a società. Normalmente si tratta di strategie di chiusura, ad esempio la frequenza di scuole private esclusive, con forti barriere d'accesso nei confronti dei parvenues provenienti dal basso. Non sempre, però, i gruppi di élite adottano strategie chiusura, vale a dire di perpetuazione dei loro privilegi. Recentemente, un gruppo di business men americani ha prodotto un manifesto di opposizione alla proposta di abolizione della tassa di successione con l'argomentazione che tale proposta avrebbe ridotto le opportunità di mobilità sociale e creato le condizioni di un irrigidimento castuale delle disuguaglianze sociali. Non so se il manifesto contenga anche proposte per aumentare le borse di studio per gli studenti delle università dell'Ivy League, ma non mi stupirei che ciò fosse il caso. Non credo che in Italia un manifesto di questo tenore raccoglierebbe molti consensi tra i membri delle élite.

Storicamente, tuttavia, sono stati soprattutto gli strati intermedi, i cosiddetti. ceti medi, ad alimentare la domanda di istruzione. Essi si collocano in uno spazio schiacciato tra i rischi di degradazione e le opportunità di ascesa sociale e dove sono scarsi i legami solidaristici di classe. Le aspirazioni al "successo", all'achievement, alla cooptazione individuale nella classe superiore si alimentano nel terreno culturale dei ceti medi, è qui dove le strategie individuali di mobilità sociale trovano la loro più chiara espressione. Essi, i ceti medi, sono i portatori di una domanda sociale di istruzione che non è il risultato di rivendicazioni collettive, ma bensì dell'aggregazione di scelte individuali che puntano alla continuazione degli studi, al conseguimento di buoni risultati, all'ottenimento di un titolo di studio che apra le porte alle carriere più prestigiose. La grande espansione dei sistemi educativi prima a livello medio e, dopo, a livello superiore porta il segno dell'aspirazione alla mobilità dei ceti medi.

Per la classe operaia tradizionale l'istruzione ha storicamente rappresentato un valore legato più che al successo individuale all'emanicpazione collettiva. A parte le fasi iniziali del processo di industrializzazione dove, come ci racconta N. Smelser nel caso dell'industria cotoniera inglese1, gli operai preferivano tener con se i figli in fabbrica piuttosto che abbandonarli alle cure delle prime scuole primarie, i movimenti operai hanno sempre fatto dell'educazione una rivendicazione per i propri figli, non tanto o non solo per aprire loro la strada dell'ascesa sociale, ma perchè la cultura costituiva ai loro occhi un valore dal quale si sentivano esclusi e che non volevano restasse inaccessibile anche ai loro figli. Vedremo fra un momento come questa domanda di istruzione trovasse nella formazione tecnico/professionale un'appropriata corrispondenza sul piano dell'offerta formativa.

La presenza dei tipi di classe operaia tradizionale, sia quella della prima industrializzazione sia quella fordista e post-fordista, diventa nel tempo sempre più esigua, resta tuttavia la memoria di una cultura operaia che attribuiva alla scuola un valore di emancipazione collettiva. Da allora la scuola non è più stata oggetto di rivendicazioni collettive; l'ultimo atto è forse stata in Italia la rivendicazione delle 150 ore retribuite per poter completare la scuola dell'obbligo per coloro che ne erano usciti prematuramente. La classe operaia si è fortemente assottigliata, anche se non è scomparsa. Tuttavia, una parte consistente di essa si è trasformata in classe media oppure ne ha adottato, in toto o in parte, le aspirazioni e gli stili di vita, compresa la visione della scuola come canale di mobilità da percorrere individualmente.

L'unica classe che non esprime una domanda di istruzione è il sottoproletariato, proprio perché ad esso sono quasi sempre preclusi i canali di mobilità sociale, sia individuale che collettiva. Il sottopreletariato è ancora presente in misura piuttosto consistente nei grandi agglomerati urbani, soprattutto del Mezzogiorno, e non è un caso che tra le sue fila si trovino coloro che tuttora tendono ad evadere l'obbligo scolastico.


4. Verso l'istruzione delle masse: i bisogni di formazione tecnico-professionale

Non c'è dubbio che una spinta importante alla diffusione dell'istruzione sia venuta dallo sviluppo della moderna impresa industriale. Il passaggio dalle tecnologie artigianali alle tecnologie industriali ha reso in parte obsolete le tradizionali forme di apprendistato nelle botteghe artigiane e ha generato una domanda di istruzione tecnico-professionale da parte delle imprese. Nei paesi leader dello sviluppo industriale, Inghilterra e Francia, prima e, successivamente, Germania, nei decenni tra il 1870 e la prima guerra mondiale, si sviluppa un nuovo settore formativo che si colloca accanto, anche se in posizione subalterna, alle scuole deputate alla formazione delle classi dirigenti. Queste ultime - le public schools in Inghlterra, il Gymnasium in Prussia e Germania, il Lycée in Francia - mantengono inalterata la loro funzione, la loro struttura e la loro cultura generalista, imperniata sull'educazione classica. Ad esse è praticamente precluso l'accesso per i figli della classe operaia e anche delle nuove classi medie. Questi vengono incanalati verso l'istruzione tecnico-professionale. Vi è quindi, da un lato, l'esigenza di rispondere ad una domanda reale di competenze tecniche indotta dal progresso tecnologico e, dall'altro lato, la volontà di schermare le istituzioni educative tradizionali da questa nuova utenza che ha origini, cultura ed esigenze diverse.

5. Le cifre del ritardo della scuola in Italia

Vediamo alcuni dati sintetici che descrivono l'evoluzione recente e la situazione attuale del sistema formativo/scolastico italiano. Gli indicatori che si potrebbero considerare sono moltissimi2, ma per le argomentazioni che svilupperò in seguito ne bastano pochi. Dopo aver illustrato i dati, analizzeremo nel paragrafo successivo le ragioni storiche che spiegano perché le spinte che abbiamo appena indicato si siano presentate solo parzialmente oppure in ritardo nel nostro paese.

Un primo dato significativo descrive la dinamica di crescita della scuola media superiore. Da esso si ricava che alla data del primo censimento dopo la II guerra mondiale (1951) solo un giovane italiano su 10 tra i 14 e i 18 anni arrivava ad iscriversi ad un liceo, ad un istituto tecnico o a una scuola magistrale. Nei decenni successivi la dinamica si fa invece assai intensa. Il tasso di scolarità è calcolato come rapporto tra iscritti e leva demografica corrospondente.

Tab. 1

Altrettanto indicativi sono i dati relativi ad iscritti e laureati nelle università. Nell'arco di quasi mezzo secolo il numero di iscritti è cresciuto di sette volte e il numero dei laureati si è più che quintuplicato.

Tab.2

La grande espansione, tuttavia, non è stata sufficiente per colmare il divario con i paesi più avanzati. come risulta dalle seguenti tabelle.

Tab 3 e Tab.4

Si è discusso molto in occasione della prima pubblicazione dei rapporti OCSE sulla effettiva comparabilità dei dati internazionali in tema di istruzione vista la grande eterogeneità dei sistemi scolastici. I dati riportati, tuttavia, sono così eloquenti da non lasciare dubbi sul loro significato. L'Italia appartiene alla schiera dei paesi mediterranei che presentano livelli di istruzione sensibilmente inferiori al resto del mondo occidentale.

Non solo. Mentre negli altri paesi il divario di livello di istruzione tra generazioni è di modesta entità (poiché la scolarizzazione si è sviluppata con vari decenni di anticipo), nei paesi dell'Europa mediterranea il divario è molto accentuato. A questo divario è imputabile il fatto che molti ragazzi e ragazze provengono da famiglie con basso livello di istruzione, non hanno mai visto un libro nelle mura domestiche, non hanno quindi un ambiente famigliare che li sostenga culturalmente nella motivazione e nell'impegno scolastico. Non sorprende che molti studenti che partono con un deficit culturale di questa natura abbiano poi molte difficoltà (se non adeguatamente sostenuti al di fuori della famiglia) a completare con successo il loro iter scolastico.

Inoltre, ancorché ridotto, il divario tra Nord e Sud Europa resta anche nelle generazioni più recenti. Infine, ormai quasi ovunque le femmine hanno superato i maschi in termini di istruzione acquisita.

6. Le ragioni del ritardo

Ho indicato come la Riforma protestante abbia esercitato un potente stimolo all'alfabetizzazione delle masse nei paesi dove si è imposta. Questa "assenza" è stata da molti storici indicata come una delle cause del ritardo, o meglio, dell'incertezza con la quale il nostro paese si è affacciato alle soglie della modernità. Non deve certo essere sottovalutato il ruolo della tradizione "cattolica" in tema di educazione, si è trattato senz'altro di una "grande tradizione", unica nella storia dell'educazione in Italia, che ha trovato in prima fila per secoli, come protagonisti, gli ordini educativi. I gesuiti, i barnabiti, i rosminiani, i "fratelli della scuole cristiane" , gli ordini femminili (ad esempio, le suore orsoline) con tutte le differenze che distinguono gli uni dagli altri, hanno svolto un ruolo di grande rilievo. Questo ruolo, tuttavia, è rimasto a lungo prevalentemente circoscritto alla formazione delle classi dirigenti. Solo più tardi la presenza della componente cattolica nell'educazione popolare diventa più consistente; bisogna aspettare Don Bosco e i salesiani3 (verso la metà dell'Ottocento) per segnalare esperienze significative del mondo cattolico nella formazione tecnico-professionale (peraltro prevalentemente concentrate nelle regioni più sviluppate nel Nord). Anche attualmente, la presenza della scuola cattolica è più forte nella scuola per l'infanzia e nella scuola media superiore, mentre è più debole nella fascia dell'obbligo, cioè quella che è stata per prima investita da fenomeni di massa.

La Chiesa dunque non è stata in prima fila nel promuovere l'istruzione di massa in Italia. Questo compito se lo è assunto lo stato unitario, dopo l'unificazione. Non aveva torto Massimo D'Azeglio nel sostenere che, una volta fatta l'Italia, bisognava "fare" gli italiani. Negli stati preunitari l'istruzione era sviluppata in modo molto diseguale (il divario tra Regno di Sardegna, Lombardo-Veneto, Granducato di Toscana da una parte e Stato della Chiesa e Regno delle due Sicilie, dall'altra, era già assai pronunciato) e anche dopo l'unificazione i progressi furono piuttosto lenti4. Non solo quindi il ruolo fondamentale dello stato ha potuto manifestarsi solo in ritardo, a causa della tardiva unificazione politica, ma anche dopo l'unificazione, di fronte ad altre pressanti esigenze, la quota della spesa per l'istruzione sull'ammontare della spesa pubblica è rimasta per lungo tempo piuttosto limitata, ha incominciato a crescere solo dal 1949 in poi e solo negli ultimi si è allineata sui livelli dei paesi avanzati5. Su questo punto torneremo in seguito. La lentezza del processo è ben evidenziata da un solo dato: nel 1951, al primo censimento della popolazione dopo la II guerra mondiale, risultava privo della licenza elementare ancora il 59 % della popolazione. Bisognerà aspettare ancora mezzo secolo per far scendere questa quota sotto il 10 % (tutti, o quasi, anziani e in prevalenza donne). E nello stesso periodo i tassi di scolarizzazione per la media inferiore erano dell'ordine del 20 % delle coorti di età corrispondenti.

Se dopo quasi un secolo e mezzo di storia unitaria lo stato sia riuscito a "fare gli italiani", resta ancora un interrogativo aperto. Senz'altro, però, quel poco o tanto di "cultura nazionale" delle popolazioni che vivono al Sud delle Alpi è stata opera soprattutto della scuola di stato (oltre che, ovviamente, anche di giornali, radio e, soprattutto, televisione).

La piaga dell'analfabetismo non è peraltro del tutto debellata. Nel nostro paese la televisione si è diffusa prima che si consolidassero nella generalità della popolazione buone abitudini di lettura, abitudini che poi si trasmettono in famiglia di generazione in generazione. Una recente indagine comparativa a livello internazionale6 sulle competenze linguistiche ha rivelato che un terzo della popolazione italiana tra i 16 e i 65 anni di età ha una competenza alfabetica molto modesta che si colloca ai limiti dell’analfabetismo e un altro terzo possiede un patrimonio di competenze di base assai limitato. Di fatto due terzi della popolazione incontra grandi difficoltà a comprendere, utilizzare e produrre testi scritti. La stessa indagine ha inoltre segnalato un dato assai preoccupante: tra i 21 paesi dove è stata condotta solo cinque (Cile, Polonia, Portogallo, Slovenia e Ungheria) presentano carenze ancora più gravi della situazione italiana. Senza tener conto di questi dati non si potrebbero spiegare i livelli drammaticamente bassi della lettura di giornali e libri.

Anche la domanda di istruzione connessa alle aspirazioni di mobilità sociale si è manifestata in Italia con un certo ritardo; prima del secondo dopoguerra questa domanda è rimasta sostanzialmente contenuta, sia per la debolezza della spinta dal basso, sia per la volontà delle classi dirigenti di frenare il processo di scolarizzazione di massa. Non a caso, la riforma Gentile del 1923 accentua la stratificazione gerarchica del sistema scolastico e produce un forte calo di iscrizioni proprio in quelle scuole tecnico-professionali dove avevano avuto accesso molti figli delle classi medio basse. Il 1962 segna una data significativa nella storia dell'istruzione in Italia, in quell'anno viene infatti istituita la cosiddetta "media unica", composta da un triennio dopo i cinque anni di scuola elementare, portando così l'obbligo scolastico a 14 anni. Se, come ho ricordato, alla fine della guerra il tasso di scolarizzazione nella media inferiore non superava il 20 % (un'altra parte di pressoché analoga consistenza frequentava corsi di "avviamento al lavoro"), alle soglie della riforma del 1962 si arrivava già al 62 %. In meno di quindici anni, la domanda di istruzione a questo livello si è più che triplicata. Ancora più impressionante il boom delle iscrizioni nelle scuole secondarie superiori, nei trent'anni tra il 1955 e il 1985 la popolazione degli iscritti a questo ordine sale da ca.600.000 a 2.600.000, un incremento superiore al 13 % ogni anno. Che la spinta venisse dai ceti medi e medio-bassi lo dimostra che l'incremento maggiore si ha negli istituti professionali e negli istituti tecnici, mentre a livello liceale a crescere molto è solo il liceo scientifico che recluta prevalentemente i propri iscritti dai ceti medi, mentre l'incremento è molto minore nel liceo classico che mantiene una forte connotazione elitaria. Anche se l'aumento delle iscrizioni alla secondaria superiore è stato veramente notevole, siamo ancora piuttosto lontani dalla meta di estendere a 18 anni l'obbligo formativo, meta che alcuni paesi europei hanno già raggiunto. Discorso analogo potremmo fare prendendo i dati delle immatricolazioni all'università. Anche l'università diventa una scuola di massa con qualche decennio di ritardo rispetto agli altri paesi.

E, tuttavia, nonostante questa grande espansione gli effetti sulla mobilità restano contenuti: Come scrivono Ichino, Ristichini e Checchi a conclusione di uno studio comparativo degli effetti dell'istruzione sulla mobilità tra Italia e USA7:"il sistema scolastico italiano offre uguali opportunità di accesso a tutti i cittadini, ma questo non viene sufficientemente sfruttato dalle famiglie a basso reddito per investire nell'ascesa sociale dei figli attraverso l'acquisizione di istruzione" ... "infatti, avere un padre non laureato assicura uno svantaggio maggiore in Italia (dove solo il 7,1 % dei figli di genitori non laureati riesce a conseguire una laurea) che negli Stati Uniti (dove la stessa percentuale è pari al 20,8 %)".

L'espansione della scolarità nel nostro paese ha significato uno spostamento verso l'alto dei livelli medi di istruzione di tutti i ceti e le classi sociali, ma non ha modificato sostanzialmente la loro composizione interna e la loro relazione gerarchica. In altre parole, se tutti fanno un passo avanti, le posizioni relative di ciascuno restano invariate. Ciò non vuol dire che in Italia non ci sia stata negli ultimi decenni mobilità sociale, questa però è stata il prodotto della vivace dinamica della piccola impresa piuttosto che dell'efficacia del canale istruzione.

Tra i fattori di spinta abbiamo segnalato infine l'istruzione tecnico-professionale. Anche in questo caso l'Italia parte con un ritardo di alcuni decenni rispetto ai paesi del Nord, anche se molti degli istituti in questione acquisiscono presto un'ottima fama: Pensiamo, ad esempio, all'Istituto Avogadro e al Galileo Ferraris di Torino, al Feltrinelli di Milano, al ............. di Bologna, tutti comunque collocati rigorosamente nelle regioni del Nord, dove lo sviluppo industriale ha svolto una funzione trainante nel promuovere l'istruzione tecnica e in generale la cultura industriale. A livello di istruzione superiore, si fondano tra la fine dell'800 e l'inizio del '900 i politecnici di Milano e Torino, due istituzioni che nello stesso tempo sono state prodotte da, e hanno favorito, lo sviluppo industriale delle regioni del Nord Ovest8.

7. Disoccupazione intellettuale o carenza di competenze di livello elevato?

Abbiamo visto che, utilizzando, come ci sembra sensato, la categoria del "ritardo" nello sviluppo della scuola di massa in Italia vi sono abbondanti ragioni in grado di spiegarlo: il mancato impulso della Riforma, la tardiva formazione dello stato nazionale, la iniziale debolezza della domanda di istruzione da parte delle masse, il ritardato e distorto decollo industriale. A questo punto è naturale porsi la seguente domanda: il ritardo della scuola è una conseguenza del ritardo della società italiana di fronte alle sfide della modernità, oppure ne è una causa ? La scuola è (è stata) più "avanti" o più "indietro" rispetto alla società ? In termini più specifici, lo sviluppo economico e sociale del paese è stato frenato dal ritardo delle sue strutture formative, oppure è vero il contrario e cioè che la lentezza dei tempi e le peculiarità dello sviluppo italiano sono responsabili anche del ritardo della scuola ?

E' la stessa domanda che si è posto quasi trent'anni fa Marzio Barbagli 9(1974) nella sua ricerca su disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia. Egli aveva notato che, già al momento dell'unificazione, la situazione era caratterizzata da elevati livelli di analfabetismo combinati ad alti livelli di disoccupazione intellettuale. In altri termini, lo scarso sviluppo dell'istruzione primaria si accompagnava ad un rigonfiamento dell'istruzione secondaria, non in linea con il reale sviluppo del paese. Egli sosteneva allora che nelle sue varie fasi il sistema scolastico era per certi versi sfasato, nel senso di più avanzato, del grado di sviluppo economico. Da tale sfasatura traeva origine la disoccupazione intellettuale, un tratto strutturale persistente fino ai nostri giorni. Alla luce di questa tesi, egli interpretava le varie misure di politica scolastica, compresa la riforma Gentile, come tentativi di arginare la disoccupazione intellettuale.

Non ho elementi ulteriori, per confermare o confutare la tesi di Barbagli, rispetto a quelli che sono contenuti nel suo libro e nel dibattito che ne è seguito. La sua argomentazione mi sembrava allora, e mi sembra ancor oggi, convincente. Ma non è questo il punto. Quello che mi sembra invece incontrovertibile è che il problema della disoccupazione intellettuale si è aggirato (e forse si aggira tuttora) come uno spettro nei dibattiti sulla scuola e la politica scolastica.

A parte i discorsi che si sentono spesso nelle conversazioni quotidiane della gente comune ("ormai tutti vogliono studiare", detto con un certo rimpianto per tempi in cui "ognuno sapeva stare al suo posto"), mi sembra di poter avanzare l'ipotesi che nel nostro paese non c'è mai stata una piena accettazione culturale della "scuola per tutti", ovvero della scuola di massa, come "valore", tenendo presente, ben inteso, che nel secolo e mezzo dall'unità ad oggi, l'idea di scuola di massa ha cambiato più volte significato. In un primo tempo ha significato alfabetizzazione e scuola primaria, in seguito ha significato estensione dell'obbligo scolastico, mentre attualmente per scuola di massa si intende la realizzazione dell'obiettivo di tenere tutti i ragazzi e le ragazze in qualche percorso formativo fino al 18simo anno di età e consentire a una quota consistente di essi di proseguire gli studi a livello superiore.

Le classi dirigenti del paese hanno manifestato orientamenti ambivalenti facendo oscillare ripetutamente il pendolo della politica scolastica tra una polarità volta al contenimento ed una polarità contraria volta ad assecondare l'espansione della scolarità. Come mai queste incertezze ? Vi sono molti indizi che consentono di ritenere che si sia diffusa a vari livelli l'opinione, o forse sarebbe meglio dire la credenza o il timore, che scuola di massa equivalga, da un lato, a disoccupazione intellettuale e, dall'altro lato, ad abbassamento degli standard qualitativi. Su quest'ultimo punto non c'è dubbio che i livelli qualitativi medi di coloro che escono dalla scuola di massa siano scesi rispetto a quando i ranghi erano ridotti.10

Ma è il nesso tra scuola di massa e disoccupazione intellettuale che bisogna chiarire per valutare se anche in anni recenti lo spettro della disoccupazione intellettuale manifesta la sua influenza.

Non si può negare che siamo di fronte a un paradosso. Vediamo alcuni "segnali". Primo: come abbiamo già visto, i livelli medi di istruzione, e la quota di laureati e diplomati sugli occupati, sono in Italia sensibilmente inferiori rispetto ai paesi europei più avanzati. Non sembrerebbe quindi esservi un'eccedenza, ma caso mai il contrario, cioè una carenza. E, tuttavia, vi è una quota consistente di laureati e diplomati che, o sono inoccupati, o sono in cerca di occupazione e restano disoccupati per molti mesi dopo il conseguimento del titolo di studio. Secondo: le aree del paese che negli ultimi decenni hanno manifestato più intensa dinamica produttiva (segnatamente le regioni del Nord Est, ma non solo) presentano livelli di istruzione più bassi di regioni dove lo sviluppo è stato più lento. In altri termini, quando la domanda di lavoro è vivace, si riduce la propensione a continuare gli studi, mentre succede il contrario nelle aree arretrate dove la continuazione degli studi può avere anche il significato di differire la disoccupazione. Terzo, pur non avendo dati precisi, sembra che non si sia arrestato un fenomeno che ha caratterizzato il nostro paese fin dagli anni a cavallo tra XIX e XX secolo, vale a dire l'emigrazione intellettuale, la "fuga dei cervelli"; tutt'ora molti ricercatori italiani in vari campi - dalla biologia alle scienze fisiche alle scienze sociali - sono stabilmente impiegati in centri di ricerca e in università americane ed europee.

Come interpretare questi "segnali" ? Il nostro sistema produce troppi o troppo pochi diplomati e laureati ? La risposta sembra essere "troppi" e non "troppo pochi". Il timore della disoccupazione intellettuale è dunque fondato. Appaiono ancora valide le considerazioni che Barbagli faceva riferendosi ai decenni post-unitari e cioè che lo scarto tra istruzione ed economia deriva dalle caratteristiche peculiari dello sviluppo economico italiano e soprattutto dalla sua natura dualistica. La presenza ridotta di grandi imprese alla quale si aggiunge, invece, il grande numero di micro-imprese a conduzione famigliare, gli scarsi investimenti in ricerca e sviluppo (R&D) da parte dell'industria privata, l'entità piuttosto modesta della spesa pubblica nel settore della ricerca, la presenza in alcuni settori di imprese multinazionali che localizzano altrove i loro laboratori di ricerca, l'incidenza limitata di settori ad alta tecnologia, tutti questi fattori messi insieme fanno sì che il nostro sistema produttivo assorba una quota relativamente modesta di personale ad alta qualificazione rispetto ai paesi con i quali avviene normalmente il confronto.

Non è un caso che molti diplomati e laureati si siano riversati nella pubblica amministrazione e, non da ultimo, proprio nella scuola. Spesso ci si dimentica di un dato che non è costantemente presente nei dibattiti sulla condizione della scuola italiana e cioè che, se si esclude l'istruzione superiore, sia in termini di quota del PIL, sia in termini di quota della spesa pubblica, lo stato italiano non spende meno per l'istruzione dei partner europei, anche se negli anni '90 il risanamento dei conti pubblici ha condotto a una riduzione della spesa per l'istruzione sul PIL. In rapporto al PIL pro capite, l'Italia spende più della media OCSE per alunno nelle scuole materne, elementari e medie sia inferiori che superiori (meno della media OCSE, invece, per l'università). Con una differenza, però, che le retribuzioni del personale (in gran parte insegnanti) assorbono una quota sensibilmente maggiore della spesa per l'istruzione di quanto non avvenga negli altri paesi, nonostante il fatto che gli stipendi siano quasi sempre più bassi. Si spende poco per l'edilizia scolastica, le attrezzature, il personale non docente, il sostegno al diritto allo studio e "molto" per pagare "poco" tanti insegnanti. Infatti, nella scuola elementare il numero medio di alunni per insegnante è di 11,2, mentre in Germania è 20,9, in Francia di 19,5, il Gran Bretagna di 21,3, in Olanda di 20. La situazione nella media superiore non è dissimile: in Italia vi sono 10,2 studenti per insegnante, in Olanda 18,6, in Gran Bretagna 15,6, in Germania 15, in Francia 13,3.

In Italia si è verificata una situazione a dir poco sconcertante: mentre dall'inizio degli '70 in poi, a cominciare dall'istruzione primaria, la popolazione studentesca si è sensibilmente ridotta a causa delle ben note tendenze demografiche, il numero degli insegnanti, invece, è regolarmente cresciuto fino al 1996, anno in cui per la prima volta si avverte una.leggera flessione. La spiegazione di questo singolare andamento non può essere che una: mantenendo elevata l'occupazione di laureati nella scuola si è voluta arginare la disoccupazione intellettuale, nel timore, probabilmente non infondato, che una quota eccessiva di persone istruite prive di una collocazione stabile nella società avrebbe condotto alla loro radicalizzazione, esasperato il livello di conflittualità e alimentato quei movimenti di protesta che alla fine degli '60 e per tutti gli anni '70 avevano occupato la scena pubblica. A ciò si aggiunga il fatto che l'immissione di nuovi insegnanti è spesso avvenuta in modo disordinato, attraverso ondate successive di assunzioni di insegnanti precari, successivamente "sistemati" con provvedimenti ad hoc, sanatorie di ogni genere, fantomatici corsi abilitanti, senza preoccuparsi della loro effettiva formazione professionale e senza accertare con un minimo di rigore l'idoneità alla funzione docente. La scuola italiana ha di fatto rinunciato alla sua funzione selettiva, se non degli allievi, come molti temono, certamente del proprio personale docente.

Non è quindi esagerato sostenere che la politica scolastica sia stata per tutti gli anni '70 e '80 una politica del personale, concepita sotto l'influenza dello "spettro" della disoccupazione intellettuale. E' da un secolo e mezzo che questo spettro circola e non ha ancora smesso di alimentare i timori e le preoccupazioni di settori consistenti delle classi dirigenti e dell'opinione pubblica. Non essendo più politicamente praticabile la strada della restrizione degli accessi all'istruzione secondaria e superiore (come in fondo aveva fatto Gentile), la classe politica del paese, incapace di promuovere uno sviluppo a più alto assorbimento di forza lavoro ad elevato livello di istruzione, fino alla metà degli anni '90 ha ripiegato sull'orizzonte immediato di garantire uno sbocco qualsiasi a una quota rilevante di quella schiera di giovani che ogni anno usciva dall'università.

Dalla metà degli anni '90 la rotta è stata, almeno parzialmente, invertita. Non si sono fatte più assunzioni indiscriminate, il flusso dei pensionamenti ha superato le nuove immissioni con la conseguenza che l'età media del corpo docente è notevolmente cresciuta. Eppure, quando, come è accaduto recentemente, viene bandito un concorso per docenti, si presentano decine di migliaia di candidati per un numero nel complesso limitato di posti. La disoccupazione intellettuale non è una favola, anche se, bisogna ricordarlo, è un fenomeno di dimensioni cospicue soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno.

Mentre in molti paesi del Nord Europa i responsabili delle politiche scolastiche incominciano ad essere seriamente preoccupati delle difficoltà di reclutamento per una professione, quella di docente, che risulta sempre meno attraente per i laureati e, soprattutto, per i laureati migliori, in Italia non si è ancora prodotta una situazione di carenza di aspiranti docenti (salvo in alcuni limitati settori quali quello dell'insegnamento delle lingue straniere e dell'istruzione tecnica). Qualche segnale, però, incomincia a manifestarsi anche da noi. Molti corsi di laurea per la formazione primaria hanno visto un numero di iscrizioni inferiore a quello programmato in vista del fabbisogno che si produrrà fra qualche anno per effetto dei pensionamenti e una volta assorbita l'attuale eccedenza di docenti.

Comunque vadano le cose, lo spettro della disoccupazione intellettuale non è ancora scomparso, ma forse ci si è resi conto che non si può accollare alla scuola il compito di assorbirla. E' il sistema economico e sociale nel suo complesso che, se si svilupperà in modo meno diseguale e distorto che in passato, assorbirà le nuove leve di diplomati e laureati della scuola di domani.

8. Le sfide del XXI secolo

Ritorniamo, in conclusione, alle considerazioni esposte nella "premessa". Tra i tanti neologismi inventati per definire il tipo di società nelle siamo destinati a vivere nel secolo appena iniziato (società "post-industriali", "post-moderne", "tecnologicamente avanzate", "post-ideologiche" e altri ancora), quello che ai nostri fini appare più appropriato è "società della conoscenza" (knowledge society). Questo tipo di società richiede dai propri membri livelli elevati di competenza sia per esercitare i diritti di cittadinanza (per compiere delle scelte politiche meditate), sia per accedere ai consumi di grado elevato una volta soddisfatti i bisogni di base (per compiere delle scelte di consumo meditate), sia per svolgere in modo adeguato un ruolo nella produzione di beni e servizi (per compiere delle scelte di lavoro e di vita meditate). La scuola non è l'unica istituzione nella quale si formano le competenze indicate, ma è ancora certamente la principale. Non vi è dubbio che, una volta superato il sistema di produzione di massa di tipo "fordista", per operare nelle forme di organizzazione indotte dall'automazione, dall'informatica e dall'elettronica non basta più il completamento della scuola dell'obbligo. In breve, la "società della conoscenza" richiede che tutti restino nei percorsi formativi dall'età prescolare (scuola dell'infanzia) almeno fino a diciotto anni.

Affinché tuttavia non si verifichino in itinere cospicui fenomeni di dispersione (come avviene ancora oggi in Italia) è opportuno che siano previsti percorsi formativi che valorizzino le capacità pratico/manuali, i "saper fare" concreti. Detto altrimenti, è necessario che il canale della formazione professionale, che attualmente assorbe prevalentemente coloro che la scuola scarta come inadatti, venga rivalutato socialmente e culturalmente. Dare una scuola a tutti non vuol dire dare a tutti la stessa scuola e tuttavia è necessario evitare che i vari "indirizzi" siano troppo socialmente caratterizzati e che non si possa transitare dall'uno all'altro senza troppo difficoltà.

Anche dopo il completamento della scuola secondaria una quota cospicua della popolazione giovanile è destinata a proseguire gli studi a livello superiore. Non è questa la sede per entrare nel merito dei dibattiti che si svolgono in questi anni in tutto il mondo intorno agli assetti istituzionali, presenti e futuri, dei sistemi di istruzione superiore. Qui basti ricordare che la sfida si gioca sulla capacità di combinare da un lato i bisogni formativi di una massa di giovani (grosso modo all'incirca un 50 % di ogni coorte di età), con l'esigenza di formare e valorizzare le capacità di coloro che promettono di poter raggiungere prestazioni di eccellenza. La prima sfida riguarda quindi il rapporto qualità-quantità.

La seconda sfida riguarda invece la riduzione delle disuguaglianze d'accesso ai vari ordini e gradi di istruzione, ovvero l'attivazione della scuola come canale di mobilità sociale. A parte le considerazioni in chiave di equità, "una società socialmente immobile - come scrivono Ichino, Rustichini e Checchi 11 - costringerà persone dotate di capacità a rimanere negli strati bassi (a causa del basso investimento in capitale umano) e alternativamente persone poco dotate di capacità si troveranno a ricoprire posizioni elevate: in entrambe i casi potrebbe trattarsi di una allocazione inefficiente". Per evitare questo spreco di talenti, l'unico strumento che in tutto il mondo si è mostrato efficace è il sostegno massiccio ai programmi di diritto allo studio, vale a dire, le borse di studio assegnate in base al duplice criterio del merito e delle condizioni economiche della famiglia. Non possiamo qui entrare nel merito del problema del finanziamento di programmi di questa natura, se sia meglio, cioè, farli gravare sulla fiscalità generale, oppure sugli introiti derivati dalle tasse universitarie pagate dalle famiglie benestanti. L'intera questione del finanziamento dell'istruzione superiore deve essere ripensata per evitare che si ripeta la situazione attuale dove il costo degli studi (soprattutto a livello universitario) è sopportato anche da quelle famiglie che hanno scarsa o nulla probabilità di indirizzare i propri figli verso percorsi di istruzione di lunga durata.

La terza sfida riguarda la qualità del corpo docente. Come ho già notato, un po' ovunque si incontrano difficoltà a motivare i migliori laureati ad intraprendere la carriera di insegnante. Bisogna fare in modo che la professione di docente diventi più attraente agendo sulle leve degli incentivi sia materiali che simbolici. Una tappa in questa direzione è il riconoscimento dell'impegno e della professionalità. Una professione nella quale non sia premiato chi si impegna di più e meglio già di per sè scade agli occhi sia di chi la utilizza (gli utenti) sia di chi la esercita. In tutto il mondo si discute sul difficile problema delle modalità di valutazione della qualità degli insegnanti.

Sulla qualità degli insegnanti un peso decisivo lo ha la loro formazione professionale iniziale. In questo campo il ritardo del nostro paese è veramente enorme. Fino praticamente all'anno scorso (salvo per la scuola dell'infanzia e la scuola primaria) si è proceduto nell'assunto che chi sa qualcosa sa anche insegnarla. Nella formazione del docente si è curata (nel migliore dei casi) la formazione disciplinare, ma si è del tutto trascurata la formazione socio-psico-pedagogica. La scuola da un bel messaggio: che si può insegnare praticamente tutto, tranne che ad insegnare. Non si sono sviluppate fino ad ora in Italia istituzioni per la formazione degli insegnanti che altrove sono anche il luogo privilegiato della ricerca educativa. Col duplice risultato, da un lato di non formare professionalmente gli insegnanti, e dall'altro di impedire lo sviluppo della ricerca in campo educativo. Si è sviluppata quindi in quelle che fino a ieri erano le Facoltà di Magistero (ma che facevano di tutto fuorché formare insegnanti) una cultura pedagogica verbosa e di stampo ideologico, estranea ad una mentalità empirico-scientifica. E' in questo quadro che si sono aperte l'anno scorso in ogni regione le Scuole di Specializzazione per Insegnanti, ma gli inizi della loro attività sembrano tutt'altro che facili.

Ho lasciato per ultima la sfida più importante e di portata più generale e che riguarda l'impatto che le nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione avranno sull'educazione. Queste tecnologie stanno rivoluzionando i modi di produrre, trasmettere, conservare e consumare conoscenza. A differenze dei mezzi di comunicazione tradizionali (stampa, radio, televisione), i nuovi media sono molto più interattivi. I calcolatori, inoltre, permettono di compiere delle operazioni di manipolazione/simulazione che nessun cervello umano sarebbe stato in grado di compiere. Non si può prevedere quale sarà l'impatto di tutto ciò sul modo di fare scuola, ma si può star certo che l'impatto sarà grande.

Come già in passato di fronte ad altre rivoluzioni tecnologiche, le opinioni che circolano del dibattito culturale si allineano su due fronti: da un lato gli apologeti e dall'altro gli apocalittici. Gli uni vedono in primo piano le grandi opportunità che si aprono, gli altri soprattutto ciò che si rischia di perdere. Le due posizioni sono ben rappresentate in Italia da due studiosi di valore, Domenico Parisi, psicolinguista del CNR, esperto di intelligenza artificiale, ha sviluppato una visione "ottimistica", e Raffele Simone, linguista, ha imboccato la strada di coloro che guardano con apprensione le tendenze in atto12. Che gli sviluppi della scienza e della tecnologia comportino promesse e rischi è così ovvio da risultare banale. Il problema è di vedere se si possano minimizzare i rischi senza compromettere le potenzialità. Il rischio maggiore, tuttavia, mi sembra la chiusura della scuola di fronte alle nuove tecnologie, poiché se la cultura che esse veicolano dovesse diffondersi in isolamento o addirittura in opposizione alla cultura scolastica, la presa di quest'ultima sulle giovani generazioni risulterebbe gravemente compromessa. La scuola dovrà fare i conti con le nuove tecnologie. Credo sia un errore vedere come un pericolo che le scuole si dotino di calcolatori e ne favoriscano l'utilizzo da parte degli studenti. Anzi, in questo modo si evita che coloro che non dispongono di questi strumenti privatamente vengano tagliati fuori dalla possibilità di addestramento nel loro uso. Inoltre, un uso intelligente e critico delle innovazioni aprirebbe nuove modalità di comunicazione, elaborazione e diffusione anche per trasmettere quel patrimonio di cultura che si valuta come irrinunciabile.

A mio avviso, il dibattito si è incentrato su una falsa dicotomia: la contrapposizione tra linguaggi, da una parte il linguaggio verbale - la cultura della parola - e dall'altra parte il linguaggio delle immagini (e dei suoni). Le nuove tecnologie sposterebbero il baricentro verso la cultura dell'immagine, inevitabilmente frammentaria, con la perdita di quei caratteri di sequenzialità e di connessione logica che sono propri invece del testo scritto. Una cultura fatta più di immagini che di parole ostacolerebbe in definitiva lo sviluppo del pensiero astratto e produrrebbe danni irreparabili. Sappiamo troppo poco sulle connessioni tra linguaggi e pensiero per avvalorare o confutare questi timori. Sappiamo solo che il nostro modo di pensare non è indifferente al nostro modo di comunicare e possiamo prevedere con qualche certezza, ad esempio, che gli spazi comunicativi aperti da Internet influenzeranno i modi di pensare delle generazioni che saranno cresciute utilizzando questi strumenti. Da questo punto di vista, però, mi sembra che Internet possa rappresentare una, almeno parziale, rivincita della parola sull'immagine rispetto alla televisione, con l'aggiunta di consentire spazi di interattività molto più ampi. Il vero problema sarà sempre più quello di imparare a governare l'eccesso di informazioni, vale a dire la capacità di disporre di criteri di selezione, di quadri concettuali che consentano di "navigare" sapendo bene che cosa si sta cercando e dove si vuole arrivare. L'elaborazione di questi criteri sarà probabilmente in futuro uno dei compiti che la scuola dovrà essere in grado di assumersi.


Tab. 1 - Iscritti alla scuola media superiore e tassi di scolarità, 14-18 anni

anno scolastico numero iscritti tasso di scolarità

1951-52 416 348 10,3

1961-62 839 995 21,3

1966-67 1 372 319 35,2

1971-72 1 732 178 48,7

1976-77 2 197 750 53,0

1981-82 2 443 946 51,9

1986-87 2 657 262 58,4

1991-92 2 864 885 70,8

1995-96 2 723 715 79,5

(Fonte:Istat, Statistiche dell'istruzione)


Tab. 2 - Iscritti e laureati nelle università (in migliaia)

anno accademico iscritti laureati

1950-51 231 20

1960-61 268 22

1970-71 682 63

1975-76 936 73

1980-81 1048 74

1985-86 1113 75

1990-91 1381 90

1995-96 1656 105

(Fonte: Istat, Statistiche dell'istruzione)


Tab. 3 - Distribuzione della popolazione tra i 25 e i 64 anni per livello di istruzione raggiunto:

Inferiore al Istruzione Istruzione

livello di secondaria terziaria o

istruzione superiore universitaria

secondaria

superiore

Portogallo 80 9 10

Spagna 70 13 18

Italia 62 30 8

Grecia 56 25 19

Belgio 47 30 24

Francia 40 41 19

Regno Unito 24 55 22

Germania 19 60 22

Stati Uniti 14 52 34

(Fonte: OCSE, Uno sguardo sull'educazione)


Tab. 4 - Percentuale della popolazione che ha conseguito almeno un diploma di istruzione secondaria superiore per classi di età e sesso (1996)

25-34 35-44 45-54 55-64

anni anni anni anni

M F M F M F M F

Portogallo 29 36 24 25 17 14 11 8

Spagna 48 52 36 32 25 16 15 8

Italia 50 54 47 45 36 27 20 13

Grecia 65 67 53 50 40 31 27 17

Belgio 67 72 57 58 50 44 35 27

Francia 74 75 68 61 61 51 44 33

Regno Unito 88 86 85 76 79 64 70 52

Germania 88 84 89 81 87 75 83 59

Stati Uniti 86 88 87 89 87 86 78 77

(Fonte: OCSE, Uno sguardo sull'educazione)

La sinistra europea ed il rinnovamento latino-americano


Con due nuove elezioni in Cile e Bolivia si conferma il processo di democratizzazione in America Latina, con uno spostamento a sinistra dell’asse politico. Un processo iniziato nel 2002 con la elezione di Lula alla Presidenza del Brasile e con la vittoria al primo turno nell’ottobre 2004 di Tabarè Vazquez (già sindaco di Montevideo) del Fronte Amplio in Uruguay. Si spera che l’onda progressista sia confermata nelle elezioni del Costarica1 del 5 febbraio e giunga fino al Messico, impegnato nelle presidenziali a metà anno e che non si concluda con quelle brasiliane di ottobre. Occorre precisare che quando, in generale, si parla di onde con determinate caratteristiche, si tratta di una semplificazione: le tendenze di voto hanno ragioni nazionali e non continentali e, nel caso specifico, come argomenteremo spesso non ci sono tratti comuni tra i candidati ed i programmi raggruppati sotto la comune denominazione di “progressisti”, se non in contrapposizione ai candidati ed ai programmi dei loro avversari.

In realtà in Cile vi è una continuità con il Presidente Lagos, già socialista e anch’esso espresso dalla Concertacìon, la coalizione di centro-sinistra maggioritaria (PS ch, PPD, PDC). Tuttavia la candidatura della Bachelet non era scontata: vi era una richiesta democristiana di avvicendamento, ma la popolarità della candidata socialista ed il risultato inequivocabile delle primarie, tra la stessa Bachelet e la democristiana Soledad Alvear, hanno sgomberato la strada.

Neppure la vittoria era scontata nel caso che la destra fosse stata in grado di presentare un solo candidato. Infatti, al primo turno la somma dei voti di Lavin dell’UDI e di Sebastian Piñera di RN con il 48.6% superavano il 45.9% della Bachelet. Al secondo turno la vittoria è stata, invece, netta con il 53.5% della Bachelet contro il 46.5% di Piñera, conosciuto per la sua ricchezza ed il controllo di una televisione, come il Berlusconi cileno.

L’estrema sinistra radicale, condotta da un Partito Comunista ai minimi termini, non l’ha appoggiata al primo turno e le ha sottratto ben il 5.4% dei voti. Tuttavia nell’America Latina l’elezione di una donna (i precedenti sono pochi da Violeta Chamorro e Isabel Peron) rappresenta, comunque, una rottura di forte significato, che la Bachelet ha accentuato formando un governo con dieci donne su venti, e con ministeri di peso quali la Difesa, la Sanità e l’Ambiente. L’elezione della Bachelet è stata trascinante anche per le contemporanee legislative: i partiti della Concertacíon con il 51.8% hanno battuto quelli dell’Alleanza con il 39% dei voti e l’estrema sinistra con il 7.5%. Soltanto al Senato la somma dei partiti alleati ha superato quelli della Presidenta con il 55.7%. La Bachelet gode di una maggioranza sia alla Camera dei Deputati (65 seggi su 120) sia al Senato (20 seggi sui 38 elettivi).

Con la elezione di Michelle Bachelet, figlia di un generale fatto morire da Pinochet, si chiude definitivamente il ciclo di ristabilimento della democrazia nel marco della Costituzione voluta da Pinochet e tuttora vigente.

Ora è il momento di costruire un Cile non soltanto democratico, ma anche più giusto e con una distribuzione del reddito più equa. Lo sviluppo economico cileno è stato fortissimo, ma il beneficio si è concentrato nelle mani di pochi.

Altrettanto simbolica la vittoria di Evo Morales (54%) e del suo MAS (Movimento al Socialismo) in Bolivia, anche qui una prima volta di un indio, benché gli autoctoni siano la maggioranza della popolazione: i due gruppi principali i Quechuas e gli Aymaras da soli sono il 55%.

Tutto il potere era nelle mani della aristocrazia criolla, i creoli di discendenza ispanica.

Morales dopo l’investitura democratica ha cercato quella simbolico-tradizionale con la cerimonia alla Puerta del Sol. In Bolivia i contadini erano venduti e comprati con la terra ed usati per umilianti lavori domestici: il risarcimento per il loro destino rubato non è completo. Nelle contemporanee elezioni legislative il MAS con il 53% dei voti ha conquistato 72 seggi su 130, ma resta minoritario al Senato con 12 seggi su 27, di cui 13 del diretto avversario, il Movimento Poder Democratico y Social del suo avversario Quiroga.

Morales sarà lo statista che riscatterà il suo popolo od un Masaniello giunto al potere? Sarà coerente con le sue promesse di dare dignità al suo popolo, gli aymarà ed agli altri indigeni? Ovvero sarà una delusione come Toledo in Perù?

I suoi punti di riferimento continentali sono chiari: Chavez, Lula, Kirchner e l’immarcescibile Castro, benché nessuno si proclami marxista, né si richiami ad una rivoluzione ispirata al modello cubano. Lo stesso programma di nazionalizzazione delle risorse minerarie ed energetiche non è una novità, nel 1952 furono già nazionalizzata da Paz Estensoro, lo stesso che 33 anni dopo le privatizzò, durante il suo terzo mandato presidenziale.

Già si intravedono le difficoltà di una saldatura con il riformismo cileno per ragioni oggettive e storiche. Oggettive: il riformismo cileno è alle prese con uno sviluppo distorto, ma pur sempre uno sviluppo, mentre la Bolivia deve uscire dalla povertà e dal sottosviluppo. Storiche: con la guerra del Pacifico il Cile ha privato la Bolivia dell’accesso al mare.

La ferita non è ancora rimarginata.

Lula, icona carismatica di una sinistra ampia, che comprende settori della sinistra radicale e alternativa e di quella istituzionale, dalla componente politica socialdemocratica alle organizzazioni sindacali europee, si sta fragilizzando e la sua rielezione nell’ottobre di quest’anno non è sicura.

Il Brasile è il più grande paese dell’America Latina con il più grosso PIL e la popolazione di gran lunga la più numerosa e con finanze in ordine, tanto che può anticipare la liberazione dai prestiti dal Fondo Monetario Internazionale per sottrarsi ai suoi condizionamenti.

Le difficoltà di mantenere contemporaneamente le promesse elettorali e di non scatenare le reazioni dei mercati finanziari hanno compromesso l’immagine di Lula, che per di più è stato investito da fenomeni corruttivi di dirigenti del suo partito, in particolare il settore paulista, ed anche di suoi collaboratori.

Nel Parlamento la sua maggioranza è ristretta e fragile per i ricatti degli alleati.

Il sistema partitico brasiliano è frammentato ed instabile, oltre che spregiudicato nelle alleanze, che possono essere costruite e disfatte senza grandi problemi di coscienza.

Per esempio il PDT (Partito Democratico dei Lavoratori), membro dell’Internazionale Socialista, è stretto alleato, all’opposizione di Lula, con il Partito Popolare Socialista, uno degli eredi del Partito Comunista Brasiliano, conosciuto per il suo rigido filosovietismo.

Unica eccezione nella storia è stato il glorioso Partito Socialista Brasiliano, che, però, forse per questo è stata una formazione rispettabile, ma minore.

L’eredità del populismo e del corporativismo (anche il Brasile ha avuto, come l’Argentina, un regime, quello di Getulio Vargas, ispirato dal fascismo italiano, sia pure nella versione sociale) è dura da superare, come la pratica del clientelismo e della corruzione.

L’Argentina di Kirchner sta per uscire dalla crisi di pochi anni fa, in cui si sono bruciate le ricchezze del paese e la stessa esistenza di una classe media è stata compromessa. Il risanamento finanziario è stato spettacolare, anche a spese dei nostri risparmiatori, che avevano sottoscritto i tango bonds, tanto che anche l’Argentina, al pari del Brasile, si è liberata dai prestiti del FMI. Una strategia ben diversa dalla antica parola d’ordine «la deuda no se paga» (i debiti non si pagano).

Il sistema politico resta, peraltro, molto distante da quello europeo, che ha attecchito soltanto in Cile. A prima vista pare strano che un paese così etnicamente europeo sia distante anni luce dagli schieramenti politici, cui siamo abituati.

Eppure il Partito Socialista Argentino era dotato di grandi personalità al momento della sua fondazione, che ha preceduto quella di partiti socialisti di paesi europei (sono sufficienti i nomi di Alfredo Palacios e Juan B. Justo).

All’inizio si pubblicavano riviste socialiste in francese ed in tedesco: in un certo senso il socialismo europeo restava la loro patria ideale.

I comunisti sono sempre stati una forza ben organizzata e con punti di forza nei sindacati, ma irrimediabilmente sovietici e perciò stranieri.

A sinistra e a destra ha spopolato il peronismo, come già detto una variante del fascismo corporativo. Kirchner è peronista, come erano peronisti i suoi predecessori Duhalde e Menem, oggi suoi avversari.

A distanza di decenni è ancora il peronismo in tutte le sue tendenze, da quelle moderate a quelle estremiste (negli anni della lotta armata i peronisti avevano una loro formazione, i Montoneros), dalle progressiste alle nazionaliste, che detta i ritmi del cambio politico e la dialettica interna al peronismo sostituisce la dialettica tradizionale tra destra e sinistra.

Tuttavia l’Argentina, il Cile ed il Brasile, grazie al loro sviluppo, per quanto ineguale e squilibrato, ed alla struttura produttiva, se coopereranno strettamente, possono in America Latina svolgere il ruolo che fu della Germania, della Francia e dell’Italia alle origini della costruzione europea. Per questo è importante il rafforzamento del Mercosur2, anche come alternativa all’ALCA3, la zona di libero scambio delle Americhe, ripescato dai cassetti dopo la crisi messicana del 19944.

Questo processo ha bisogno di aiuto e di solidarietà internazionale, compiti che dovrebbero essere svolti in primo luogo dall’Europa e dalla sinistra europea.

Segnali di interesse se ne sono visti pochi a sinistra.

La sinistra europea è sempre pronta a criticare i leader del “terzo mondo” appena paiono un po’ meno puri e duri di come li aveva immaginati e desiderati.

Basta confrontare il grado di popolarità attuale di Lula e del subcomandante zapatista Marcos nel popolo della sinistra alternativa.

Si spende poco tempo a riflettere sulla differenza tra cercare di risolvere i problemi di un grande paese e quella di essere testimonianza in una ristretta parte del territorio di uno Stato, per di più estraniandosi dai processi politici: se la sinistra ritornerà al potere in Messico nel luglio 2006 con Lopez Obrador ( a proposito anche lui già sindaco di una grande metropoli come Città del Mexico), non sarà grazie agli zapatisti. Per fortuna c’è Chavez. Lui è chiaro e riconoscibile e lucidamente anti USA, circostanza che suscita simpatie automatiche, salvo essere delusi in epoca successiva.

Chavez è, per di più, ricco grazie al petrolio, cioè per la stessa ragione per cui le masse popolari europee sono sempre più povere. Chavez non deve pensare ad una linea innovativa di politica economica e finanziaria: più petrolio a prezzi più alti è una formula di tutta semplicità.

Parliamo chiaro: Chavez è stato legittimato democraticamente. Chavez è stato oggetto di oscure e violente manovre di sovvertimento, contrarie al diritto internazionale e a quello costituzionale. Tutto ciò su impulso di una regia estera, facilmente identificabile negli Stati Uniti (ti ricordi il Cile di Allende?). Peraltro, molte delle manovre che hanno impedito la vendita di mezzi militari dall’Europa al Venezuela avranno, come il blocco di Cuba, effetti controproducenti.

Per una sinistra, che faccia i conti con il problema della globalizzazione e della difesa e sviluppo della democrazia, questo atteggiamento semplificatore di Chavez non è più sufficiente e a rendere moderna la sua proposta non basta che il Presidente venezuelano annunci al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre del 2005 che la sua azione si inquadri «nel socialismo del XXI secolo» (E. Sader, Le Monde Diplomatique, febbraio 2006).

Difendere l’indipendenza venezuelana è un dovere internazionale, ma nel contempo una sinistra democratica, degna di questo nome, non può tacere di una serie di violazioni dello stato di diritto5 e quando si scade nella demagogia antidemocratica, con qualche punta di antisemitismo e con ammirazione sconfinata per quel fascista di Giovanni Papini.

Non bastano elezioni (più o meno libere ed ordinate) per dar vita ad una democrazia: la Palestina con la vittoria di Hamas è l’ultimo esempio in tal senso.

La sinistra italiana ed europea dovrebbe in poco tempo rinunciare ad ogni attrattiva collegata al folklore e capire che per consolidare la democrazia in America Latina servono più partiti politici moderni e sindacati forti, così come un sistema politico liberato dal caudillismo e dal populismo, non importa se nazionalista o rivoluzionario.

Servono più sindacalisti che guerriglieri, che sopravvivono grazie al narcotraffico.

Per qualsivoglia sinistra, che abbia appreso le lezioni della storia, si deve evitare il fascino della divisa e della demagogia.

Per sostenere Chavez contro l’esproprio delle risorse da parte delle multinazionali o contro le manovre destabilizzatici degli USA in collegamento con la destra venezuelana, non c’è bisogno di diventare bolivaristi scatenati.

Pare che i sud-americani, a una certa sinistra, piacciano così roboanti e anti-gringos, ci devono far sognare di patria o morte, di libro e fucile, di socialismo senza aggettivi: di diventare militanti antimperialisti per interposta persona.

Padre Girotto, fratello mitra, grazie a questi stereotipi riuscì ad infiltrare le Brigate Rosse.

Quando metteremo, almeno sullo stesso piano un sindacalista o un difensore dei diritti umani ed un guerrigliero, faremo un passo avanti noi sinistra europea ed aiuteremo la sinistra latino-americana, a noi più vicina, a fare altrettanto, cioè a liberarsi di un passato in cui demagogia e populismo parolaio aprirono la strada ai regimi militari dittatoriali.

La sinistra europea dovrebbe iniziare a discutere di un approccio globale con la sinistra latino americana per concertare azioni politiche, ma anche istituzionali dei governi, cui partecipa, e dall’Unione Europea. L’Internazionale Socialista attualmente ha partiti membri al potere in Chile e in Uruguay, ma sempre come soggetti di una coalizione più ampia. I grandi partiti del PSE hanno una loro politica, che prescinde dal privilegiare i partiti dell’Internazionale: il caso Brasiliano è eclatante.

La sinistra radicale europea ha il suo ambito di relazioni nel Forum Sociale Mondiale e nei movimenti sociali antiliberisti e naturalmente con quelli che solleticano di più il suo immaginario: gli zapatisti di Marcos e i bolivariani di Chavez.

Tutto appare frammentato e casuale senza una riflessione di fondo e soprattutto organizzata su base paritaria tra soggetti europei e latino-americani.

Milano, 7 febbraio 2006

Felice C. Besostri - Carlos Cáceres Valdebenito *

Povertà nel mondo ed azioni internazionali di contrasto

Alcuni dati di sintesi dall’UNDP report 2005.

Ogni ora muoiono 1.200 bambini a causa della povertà. Nel mondo le 500 persone più ricche hanno un reddito superiore a quello dei 416 milioni più poveri, ma proprio alcuni dei Paesi ricchi (Italia compresa) sono tra i donatori meno generosi. Il nuovo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp), pubblicato oggi, rivela che in 18 Paesi del mondo - dodici nell’Africa sub-sahariana e sei nell'ex Unione Sovietica - attualmente si vive peggio che nel 1990, primo anno in cui fu elaborato l'Indice dello sviluppo umano (Isu), che va oltre il reddito pro capite e considera anche speranza di vita e livello di istruzione (Il Sole 24ore 7 sett. 05)

Globalmente per il quinto anno consecutivo, la Norvegia si aggiudica il primo posto nella classifica. Al secondo si piazza l'Islanda, seguita da Australia, Lussemburgo, Canada, Svizzera, Irlanda e Belgio. Gli Stati Uniti, ottavi nel 2004, arretrano alla decima posizione, davanti a Giappone, Olanda, Finlandia e Danimarca. La Gran Bretagna scende al 15° posto dal 12°, la Francia resta 16esima, mentre la Germania passa dalla 19esima alla 20esima posizione. L'Italia è quest'anno 18esima e guadagna tre posizioni. All'ultimo posto è confinato il Niger, dove la siccità e un'invasione di cavallette hanno distrutto i raccolti di quest'anno e 150mila bambini rischiano la morte per fame. In questo disperato Paese del Sahel il reddito pro capite raggiunge appena i 232 dollari l'anno, la speranza di vita alla nascita si ferma a 44 anni e l'alfabetizzazione tocca solo il 15% della popolazione. (Il Sole 24ore 7 sett. 05)

Alcuni strumenti di misura della povertà secondo il metodo UNDP

IPU - Indice di Povertà Umana: Indice messo a punto dall'UNDP (United Nations Development Programme) per misurare le deprivazioni nello sviluppo umano di base nelle tre dimensioni dell'ISU: longevità, conoscenza e standard di vita dignitoso (IPU-1). L'IPU per i paesi dell'OCSE (IPU-2) aggiunge, a quelle tre dimensioni, l'esclusione sociale.

ISG - Indice di Sviluppo di Genere: secondo la definizione contenuta nel Rapporto dell'UNDP (United Nations Development Programme), misura i risultati raggiunti nelle stesse tre dimensioni e variabili dell'ISU, ma sottolinea le ineguaglianze tra uomini e donne.

ISU - Indice di sviluppo umano: si concentra su tre dimensioni misurabili dello sviluppo umano: vivere una vita lunga e sana, essere istruiti e avere uno standard di vita dignitoso. L’ISU combina quindi le misure della speranza di vita, dell’iscrizione scolastica, dell’alfabetizzazione e del reddito per permettere una visione dello sviluppo di un paese più ampia di quella che si può ottenere dalla sola osservazione del reddito.






Rapporto UNDP 05

Rapporto UNDP 05



Rapporto UNDP 05

La misurazione della povertà secondo la Banca Mondiale


Un metodo usato per misurare la povertà è basato sul livello di reddito o di consumo.

Una persona è considerata povera, se il suo consumo o reddito è al di sotto di una soglia minima per soddisfare i suoi bisogni di base, ossia la cd. soglia di povertà.

I bisogni di base variano in funzione del luogo e del tempo di riferimento. Pertanto ogni governo definisce la soglia di povertà in rapporto ai propri livelli di sviluppo, normative e valori.

Le informazioni sui consumo/reddito sono ottenute attraverso indagini campionarie condotte regolarmente dalla maggior parte dei paesi.

Tuttavia, è necessario esprimere la misurazione nella stessa unità di misura nei vari paesi.

La WB traccia una soglia di povertà di 1$ e 2$ al giorno (più precisamente $1.08 e $2.15 in 1993 Purchasing Power Parity terms).

Nel 2001, 1.1 mld di persone ha avuto livelli di consumo <>

Si osserva, infatti, che esiste una soglia oltre la quale il tessuto sociale tende a disgregarsi e il “contratto sociale” che lega i cittadini alle istituzioni incomincia a deteriorarsi (Acocella et al. 2004) La stabilità sociale […] dipende non solo dalla percentuale dei poveri sulla popolazione, ma anche dal loro numero assoluto (Vercelli-Borghesi, 2005, p.43)

Nuovi orientamenti in termini di misurazione della povertà secondo la WB

Mentre molti progressi sono stati compiuti sul piano della misurazione e analisi della povertà in termini di reddito, sono necessari sforzi per studiare le molte altre dimensioni della povertà. Questo comporta raccogliere dati, studiarne le tendenze, identificando indicatori sociali di qualità per l’istruzione, la salute, l’accesso ai servizi ed alle infrastrutture. Comporta inoltre, la necessità di formulare nuovi indicatori per descrivere altre dimensioni della povertà, ad es. il rischio, la vulnerabilità, l’esclusione sociale, accesso al capitale sociale. Allo stesso tempo, devono essere esplorati altri modi per comparare un concetto multidimensionale di povertà quando può non essere significativo aggregare tutte le dimensioni in un solo indice.

Inoltre, è necessario integrare i dati provenienti da indagini campionarie con informazioni ottenute con tecniche di raccolta più partecipative.(web.wb.org)

Tendenze nella povertà

Gli standard di vita sono cresciuti fortemente negli ultimi decenni. La percentuale della popolazione dei pvs che vive in condizioni di povertà estrema (<1$/g)>

Ma sussistono forti disparità regionali: dal 1990 Bangladesh, Cina e Uganda hanno migliorato le loro posizioni di circa il 20 per cento. Un altro caso di successo è il Vietnam, che ha dimezzato la povertà di reddito dal 60% del 1990 al 32% del 2000 e nello stesso periodo ha ridotto la mortalità infantile dal 58 per mille al 42 per mille. L'Africa sub-sahariana è invece sempre più ai margini del mercato mondiale, nonostante un modesto aumento delle sue esportazioni. Oggi, con una popolazione di circa 690 milioni di persone, detiene una quota delle esportazioni mondiali inferiore a quella del Belgio, che ha dieci milioni di abitanti. .(Il Sole 24ore 7 sett. 05)

Si stima che se l’Africa avesse mantenuto la quota di esportazioni di cui godeva nel 1980, il guadagno in termini di commercio estero sarebbe di 8 volte il flusso totale degli aiuti elargiti dai Paesi ricchi nel 2003. (UNDP Report 05)

Nell’africa subsahariana la povertà è salita da 41 a 46% ta l’81 e il 2001 con 150 ml di persone in più cadute in povertà estrema.(web.wb.org)

Povertà e sviluppo sostenibile

Lo sviluppo è sostenibile se soddisfa le esigenze del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le loro esigenze (Rapporto Brundtland WCED, 1987, p 43)

L’idea forza di sviluppo sostenibile implica un impegno per l’equità sociale tra generazioni che per coerenza deve essere esteso all’equità nell’ambito di ogni generazione.

La condizione intergenerazionale di sostenibilità intende garantire che la libertà di scelta delle generazioni future non risulti compromessa dalla miopia decisionale delle generazioni precedenti(Chichilniski, 97; Vercelli 98)

E’ la cd condizione ambientale.

La condizione intragenerazionale di sostenibilità intende garantire pari opportunità a tutti i partecipanti alla competizione del mercato. (Vercelli – Borghesi, 2005)

E’ la cd condizione sociale.

La povertà può ostacolare gravemente l’accesso effettivo alle opportunità economiche. (ibid, 20)

Nella definizione di sviluppo sostenibile si integrano i principi etici di equità, libertà, uguaglianza e pari opportunità con i principi economici di efficienza del mercato. (cfr ibid)

Il conflitto tra etica ed economia emerge nella misura in cui, per una serie di fattori accentuati dalla globalizzazione, l’orizzonte temporale delle decisioni economiche risulta sempre più confinato al breve periodo, mettendo a repentaglio la sostenibilità dello sviluppo. (ibid, 21)

La povertà non è solo inaccettabile dal punto di vista etico, ma anche dal punto di vista economico in quanto comporta un colossale spreco di risorse potenziali, tanto più grave quanto più debole è la rete di protezione sociale. Purtroppo negli ultimi vent’anni si è verificato un diffuso indebolimento della rete di protezione sociale nella misura in cui lo smantellamento dello Stato sociale, la privatizzazione dell’istruzione e della sanità, la ricerca di una maggiore flessibilità del mercato del lavoro hanno ridotto l’accesso dei meno abbienti a molte opportunità economiche fondamentali. (ibid.43)

Come incide la globalizzazione

L’argomento a favore della globalizzazione è che a certe condizioni un mercato perfettamente concorrenziale genera un’allocazione ottimale delle risorse a cui corrisponde il massimo benessere sociale. Tuttavia esistono barriere sia alla circolazione di beni e servizi sia a quella del fattore (lavoro), mentre la liberalizzazione dei capitali ha avvantaggiato la speculazione a scapito dell’economia reale, aumentando l’instabilità finanziaria (cfr ibid. 51)

I paesi industrializzati, violando i principi del libero scambio, scaricano sui paesi in via di sviluppo costi stimati in 50 mld $ /anno, cioè una cifra quasi uguale al flusso complessivo di aiuti dall’estero (UNDP Report, 94 in Chomsky, 99, p140).

Il rapporto UNDP 2005 condanna quella che chiama una «tassazione iniqua», che fa sì che i Paesi più poveri del mondo siano penalizzati dalle tariffe più alte nei Paesi ricchi. I Paesi donatori spendono infatti un miliardo di dollari l’anno per aiutare l’agricoltura del Terzo mondo e un miliardo di dollari al giorno in sussidi all’agricoltura nazionale. L’effetto globale delle misure protezionistiche e dei sussidi in campo agricolo nei Paesi ricchi comporta un costo per quelli poveri di circa 72 miliardi di dollari l’anno, l’equivalente di tutti gli aiuti ufficiali elargiti nel 2003. Il cotone, ad esempio, rimane una delle questioni più scottanti del Doha Round: i dati del rapporto confermano le preoccupazioni dei governi africani e mostrano che i produttori Usa, grazie alle sovvenzioni, hanno conquistato circa un terzo di tutte le esportazioni mondiali, mentre nel Benin la caduta dei prezzi ha provocato un aumento della povertà dal 37% al 59 per cento.(Il Sole 24ore 7 sett. 05)

A peggiorare il problema c’è il fatto che dal 1980 a oggi il valore delle principali prodotti agricoli – e più di 50 Paesi in via di sviluppo dipendono dall’agricoltura per almeno un quarto dei proventi delle esportazioni – è sceso dal 15% al 10% sul totale degli scambi internazionali. Dal rapporto emerge, ad esempio, che alla fine degli anni 80 gli esportatori di caffè ottenevano proventi di circa 12 miliardi di dollari. Nel 2003, tuttavia, a fronte di un aumento delle esportazioni, le loro entrate si erano più che dimezzate raggiungendo solo 5,5 miliardi di dollari. Nel frattempo, però, il mercato del caffè nei Paesi ricchi è esploso: le vendite al dettaglio ammontano ora a 80 miliardi di dollari all’anno, dai 30 miliardi del 1990 e, con i bassi prezzi all’ingrosso e gli alti prezzi al consumo, gli utili dei sei maggiori torrefattori mondiali, che hanno in mano il 50%, del mercato si sono moltiplicati.(Il Sole 24ore 7 sett. 05).

Dicono gli autori del Rapporto che « per ogni dollaro di caffè Arabica venduto in un bar degli Stati Uniti, al produttore della Tanzania va meno di un centesimo». In Etiopia le esportazioni sono aumentate di due terzi dalla metà degli anni 90, ma i ricavi sono crollati e di conseguenza si è assottigliato il reddito delle famiglie che vivono coltivando caffè. Con i prezzi precipitati da un dollaro al chilo nel 1998 a trenta centesimi al chilo oggi, il rapporto stima che la diminuzione media del reddito delle famiglie in Etiopia sia di 200 dollari all’anno – una cifra enorme in un Paese in cui oltre un terzo della popolazione rurale vive con meno di un dollaro al giorno – con mancati ricavi per il Paese pari a 400 milioni di dollari, la metà degli aiuti internazionali ricevuti.. (Il Sole 24ore 7 sett. 05)

Povertà e disuguaglianza ecologica.

La concentrazione eccessiva di ricchezza nelle mani di pochi può risultare addirittura causa di povertà assoluta per molti, in un contesto di risorse naturali limitate ed ipersfruttate. La teoria dell’Impronta Ecologica (Wackernagel e Rees, 1996) permette di calcolare l’area di superficie terrestre utilizzata ogni anno per sostenere la maggior parte delle attività economiche ed in particolare dei consumi. Essa è costituita dalle terre emerse, 15 miliardi di ettari (Mld di ha), al netto di quelle improduttive (32%) e di una quota destinata alla tutela della biodivesità (12%) aumentata da una quota di mare destinata al consumo di prodotti ittici (2.9 mld di ha).

Dividendo per il numero di esseri umani attualmente presenti sulla Terra (ca. 6 miliardi), otteniamo un’area di circa 1,9 ha di terreno bio-produttivo pro-capite (p.c.) ciò che spetterebbe ad ogni essere umano per ricavare le risorse da destinare ai propri consumi e per assimilare i rifiuti che da essi derivano. (Cheli, 03)

Secondo i calcoli di Chambers et al. (2002), l’Impronta Ecologica media mondiale (cioè l’equivalente di risorse che ciascun abitante della Terra utilizza mediamente per i propri consumi annuali) ammonta a ca. 2,2 ha p.c. (dati riferiti al 2000) che risulta superiore al limite sopra indicato di 1,9 ha. Questo significa che ogni anno consumiamo collettivamente più risorse rinnovabili di quanto la natura sia in grado di rigenerare, il che è insostenibile nel lungo periodo.

Inoltre le Impronte Ecologiche dei vari paesi del mondo risultano estremamente differenziate: quelle medie dei Cinesi e degli Indiani (circa 1/3 della popolazione mondiale) risultano inferiori alla disponibilità media di risorse (i suddetti 1,9 ha p.c.), mentre quelle dei paesi più sviluppati la superano abbondantemente. Per fare due soli esempi, l’Impronta degli Italiani è di 4,2 ha p.c., mentre quella degli Statunitensi è di 9,6 ha p.c., pari a 5 volte la quota disponibile. Da questi risultati emerge chiaramente l’insostenibilità del modello di sviluppo dominante. Infatti, se pensassimo oggi di applicare lo stile di vita degli Statunitensi a tutti gli abitanti del mondo, occorrerebbero addirittura 5 pianeti Terra! (Cheli, 03)

Secondo stime recenti, dare acqua potabile a tutti richiederebbe un investimento di “appena” 110 miliardi di USD. Considerazioni simili si possono applicare anche ai contributi pubblici all’industria del petrolio (circa 200 miliardi di USD all’anno) che ostacolano lo sviluppo delle tecnologie basate sulle fonti rinnovabili di energia, per non parlare poi della spesa mondiale per armamenti alla quale i soli Stati Uniti hanno contribuito nel 2002 con 350,7 miliardi di USD (fonte: AltrEconomia n. 35, gennaio 2003).

Obiettivi del Millennio (Millennium Development Goals - MDGs)

Nel settembre del 2000, con l’approvazione unanime della Dichiarazione del Millennio, 189 Capi di Stato e di Governo hanno sottoscritto un patto globale tra paesi ricchi e paesi poveri durante un Vertice presso le Nazioni Unite. Dalla Dichiarazione del Millennio sono stati estrapolati 8 obiettivi che individuano un percorso verso un mondo piú giusto, piú sicuro e sostenibile entro il 2015:

1- Dimezzare la povertà assoluta e la fame nel mondo
2- Assicurare l’istruzione elementare per tutti
3- Eliminare le discriminazioni di genere nell'istruzione primaria e secondaria preferibilmente entro il 2005, e a tutti i livelli entro il 2015
4- Ridurre di 2/3 la mortalità infantile sotto i 5 anni
5- Ridurre di 2/3 la mortalità materna al momento del parto
6- Fermare, con un'inversione di tendenza, la diffusione dell’HIV/AIDS e della malaria e altre principali malattie
7- Assicurare la sostenibilità ambientale: inserire i principi della sostenibilità nelle politiche; frenare la perdita delle risorse naturali; dimezzare il numero di persone che non hanno accesso all'acqua pulita e a condizioni igieniche dignitose
8- Sviluppare un partenariato globale per lo sviluppo

Piano d’Azione per Combattere la Povertà

(COMUNICATO STAMPA RUNIC Bruxelles, Lunedì 17 gennaio 2005)

E’ stato presentato al SG ONU un pacchetto di misure economicamente efficienti per raggiungere gli obiettivi di sviluppo del Millennio, per dimezzare la povertà estrema e migliorare radicalmente la vita di almeno un miliardo di persone nei Paesi in via di sviluppo (PVS) entro il 2015.

Un piano pratico: Nel 2000, i capi di Stato e di governo mondiali si sono riuniti alle Nazioni Unite e si sono accordati per dimezzare la povertà estrema entro il 2015. L’indagine del progetto mostra non solo che questo è un obiettivo ancora raggiungibile, ma ne indica anche in dettaglio le modalità tecniche.

Accessibile: Nel corso del primo esercizio contabile di questo genere, gli esperti del Progetto concludono che gli Obiettivi possono essere raggiunti con un investimento pari alla metà dell’un percento dei redditi dei Paesi industrializzati – ben sotto la soglia degli obiettivi di aiuto internazionale che i Paesi benestanti hanno già promesso di raggiungere.

“Rapidi successi”: Paesi sviluppati e PVS dovrebbero immediatamente adottare una serie di azioni a “rapido successo” che potrebbero salvare milioni di vite ad un costo modesto, dall’offerta di pasti gratuiti nelle scuole e piccoli generatori diesel o generatori ad energia solare per ospedali e scuole, agli antiretrovirali per l’AIDS e reti da letto antimalaria da 5 dollari

Il rapporto necessita l’accurato monitoraggio da parte del sistema internazionale di sviluppo, che si è troppo spesso dimostrato inefficiente e sfocato. Le ricerche condotte nell’ambito del Progetto dimostrano come solo 30 centesimi di ogni dollaro devoluto per gli aiuti internazionali raggiunge effettivamente i destinatari, e cioè i programmi di investimento nei Paesi più poveri affetti da fame, povertà ed altre malattie. Gli stessi esperti sostengono come, mettendo insieme gli aiuti e facendoli fruttare localmente e strategicamente, si otterrebbe un’assistenza più efficace e meno dispendiosa. Gli autori hanno calcolato che nei Paesi a basso reddito, solo il 24% degli aiuti bilaterali è attualmente disponibile per sostenere gli investimenti del Progetto di Sviluppo del Millennio, mentre per gli aiuti multilaterali si parla del 54%. Meglio, ma comunque non abbastanza.

I fautori del Progetto richiedono un “decennio di audaci azioni” secondo le seguenti linee guida:

  1. I PVS devono adottare strategie nazionali ambiziose per raggiungere gli Obiettivi, tra cui specifiche riforme politiche e dettagliate valutazioni degli investimenti necessari ed opzioni finanziarie.
  2. I Paesi ad alto reddito dovrebbero aprire i loro mercati alle esportazioni provenienti dai PVS e dovrebbero offrire assistenza agli Stati più poveri per incrementare la loro competitività attraverso investimenti ed infrastrutture, facilitazioni commerciali, scienza e tecnologie. Gli autori sollecitano il completamento dei Principi di Sviluppo di Doha entro il 2006.
  3. Gruppi regionali quali l’Unione Africana dovrebbero promuovere il commercio regionale ed il miglioramento delle infrastrutture transfrontaliere (strade, energia e telecomunicazioni), così come rafforzare la gestione ambientale: il Progetto ribadisce come i donatori dovrebbero stimolare gli investimenti in questi ed altri settori critici.
  4. Il Segretario Generale dovrebbe rafforzare il coordinamento tra le Agenzie dell’ONU per sostenere gli Obiettivi ad un livello sia internazionale che locale.
  5. Per raggiungere gli Obiettivi, l’aiuto proveniente dai Paesi industrializzati dovrebbe raggiungere lo 0,44% del loro Prodotto Interno Lordo (PIL) nel 2006 e lo 0,54% nel 2015, cioè meno dello 0,7%, somma riaffermata dai capi di Stato e di governo mondiali alla conferenza di Monterrey per la gestione degli aiuti finanziari per lo sviluppo tenutasi nel 2002.
  6. I calcoli del Progetto non includono molti settori che nei PVS necessitano assistenza e che al contempo sono esclusi dagli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, tra cui grandi progetti per il miglioramento delle infrastrutture, misure volte alla salvaguardia e all’arresto dei cambiamenti climatici, ricostruzione post conflitto, ed altre priorità geopolitiche. Gli autori del Progetto sollecitano le nazioni donatrici a fare, mantenere o accelerare gli impegni per realizzare gli Obiettivi a lungo termine, riaffermati a Monterrey nel 2002 e volti a raggiungere il tetto dello 0.7% del PIL per lo sviluppo internazionale nel 2015.
  7. In termini strettamente monetari, gli autori richiedono agli Stati con maggiori risorse di versare 135 miliardi di dollari per l’aiuto allo sviluppo nel 2006, e questo significa un incremento di 48 miliardi di dollari rispetto agli attuali impegni, pari al 5% dell’intera spesa militare. I fautori del Progetto raccomandano che il livello di aiuti annuale raggiunga i 195 miliardi di dollari annuali entro il 2015.
  8. Questo incremento dovrebbe comprendere un aumento dai 5 miliardi annuali iniziali ai 7 miliardi di dollari per promuovere scienza e tecnologia per i più poveri, concentrati su salute, agricoltura, energia, gestione ambientale e ricerca climatica.
  9. Il Progetto del Millennio delle Nazioni Unite sostiene la proposta della Gran Bretagna di istituire una nuova Agevolazione Finanziaria Internazionale (International Finance Facility-IFF), elevandola a proposta fondamentale per un determinante miglioramento delle finanze per lo sviluppo nel 2005. Volta a raddoppiare l’assistenza allo sviluppo da ora fino al 2015, la IFF potrebbe spostare i fondi dal mercato dei capitali emanando obbligazioni sottoscritte per impegni a lungo termine. Saranno tuttavia i donatori a gestire le loro collocazioni finanziarie. La questione chiave rimane la velocità con cui saranno rese disponibili nuove risorse.
Carlos Cáceres Valdebenito